mercoledì 8 aprile 2015

"La dolce arte di esistere" quando uno è 'invisibile' nella commedia di Pietro Reggiani, ovvero una favola contemporanea tra reale e surreale

Una piacevole commedia esistenzial-surreale per raccontare ‘l’invisibilità’ di alcune persone nell’opera seconda di Pietro Reggiani, già autore del corto “Asino chi legge’ (candidato al David di Donatello e Nastro d’Argento per la produzione) e del lungometraggio “L’estate di mio fratello” (premiato ai festival di Tribeca e Montreal). “La dolce arte di esistere” - ancora un film indipendente in commedia -, racconta di un mondo in cui si suppone esista l’invisibilità psicosomatica, ovvero dove le persone con difficoltà di relazione, in certe situazioni, diventano letteralmente invisibili. In questo modo, seguiamo l’incontro tra Roberta (Francesca Golia, da “La grande bellezza” alla “Bella addormentata”), che ha bisogno di attenzione, altrimenti scompare, e Massimo (Pierpaolo Spollon, da
“Terraferma” a “Leoni”), che al contrario, ansioso, scompare se sente attenzione su di sé. “Volevo dare un percorso intimo a questa malattia – esordisce l’autore alla presentazione stampa romana -, partendo da chi scompare per paura e timidezza, a chi non riesce ad attirare l’attenzione degli altri. Nel frattempo c’è stata la nascita di un figlio, dovevo finire la sceneggiatura nel 2007, invece ci ho messo un anno e mezzo. Con pochissimi soldi non era facile girare in 30 location, ma alla fine abbiamo girato per 9 giorni nell’estate 2012, per un montaggio dai toni sottili sulle immagini, pensavo di cavarmela da solo, un anno dopo ho chiamato una professionista, Erika Manoni, che l’ha montato nel modo giusto, poi è arrivato lo spauracchio del film di Salvatores su un’invisibilità legata a fattori emotivi!”.
“La voce fuori campo era già in sceneggiatura – precisa - per mostrare alcune sfumature, prima pensavo di farla io stesso poi ho pensato ad una grande voce del cinema italiano, Carlo Valli, con cui considero di aver raggiunto il giusto tono. E’ rimasto sempre il titolo provvisorio, non trovando di meglio”. “Non avevo in mente di recitare una storia reale e al tempo stesso surreale – ribatte la Golia -, e ho dovuto ispirarmi a Pietro che è un regista minuzioso, sono stata telecomandata come attrice, lui ha curato ogni aspetto, dal respiro allo sguardo del film perché è il suo mondo”. “Interpreto ancora una mamma determinata – confessa Anita Kravos che è la madre di Roberta bambina -, Pietro l’ho conosciuto al festival di Mons dove presentava ‘L’estate di mio fratello’, mi raccontava che si era messo sotto un anno per realizzare quel film che ha girato però otto anni dopo. Poi mi ha parlato di un altro film, tempo dopo, un giorno mi ha telefonato mentre stavo facendo la spesa e mi chiese: ‘sei a Roma? Perché sto girando una scenetta in cui potreste recitare, poi anche altre piccole cose”.
“La sceneggiatura era molto lunga e dovevo decidere tutte le scene da togliere – riprende l’autore -però sono stati tutti fantastici sul set e io ho cercato di dribblare, tre giorni a Trento (col sostegno della Trentino Film Commission ndr.), al quarto giorno io come operatore per girare nella fabbrica, è stata una sorta di croce e delizia perché quello che dicevo mi rispondevano ok. premiato Montreal e Mosca- L’estate di mio fratello’ l’abbiamo prodotto io e un mio amico, forse si più fatica con una persona che può mettere l’ultima parola, ma è difficile trovare i soldi e, alla fine, non si trova d’accordo e si resta disoccupati”. “Il rapporto voce-immagine c’era fin dalla sceneggiatura, la voce da una parte, l’immagine dall’altra. A me piace molto la parola, sul set si ricerca piccole espressioni che si riferiscono al pensiero del momento. E’ un lavoro straordinario fatto da due ragazzi, che esprimono sentimenti molto estremi, hanno comportamenti contro intuitivi. Allora mi rendevo conto, vedevo le cose e ci pensavo a quello che arrivava”. “E’ un po’ frustrante poter parlare poco – confessa la Golia -, anche tutte le espressioni erano raccontate e scritte in ogni dettaglio in sceneggiatura, bisognava interrogarsi su tutto prima, e non è facile quando vengono imposte dall’esterno”.
“Da figlio di Reggiani (Stefano, il rimpianto critico cinematografico di ‘La Stampa’ ndr.), andavamo al cinema spesso quando stavamo insieme a Torino, poi lui si è trasferito a Roma, io e mia madre a Verona, sono stato ipernutrito di cinema da piccolo e autonutrito da adolescente. E’ stata una cosa immediata, il problema ad un certo punto si è tradotto in espressioni, poi sentivo e mi sembrava di cogliere delle cose sul tema, infine mi tornava l’idea. Mi sono ispirato a persone che ho conosciuto, ma non è autobiografico, anche se a volte può essere divertente”.
“E’ complicato ma dal punto di vista ambientale abbiamo cercato di fare qualcosa, adottando il protocollo inglese British Standard 8909, una consulenza che non ci certificavano: niente gruppi elettrogeni che comunque non avremmo potuto permetterci, avevano un cattering a km zero, l’asta per i microfoni invece dei radiomicrofoni a batteria, per cui il direttore della fotografia (Luca Coassin) mi diceva sempre ‘la devi spostare perché fa ombra sugli attori’. Ora con l’associazione di giovani produttori indipendenti stiamo studiando un nostro protocollo. Intanto il Bikie ovvero il ‘selfie’ della bicicletta davanti al cinema per provare di essere andato in sala con la bici ed avere l’ingresso ridotto così come chi si reca al cinema con i mezzi pubblici portando il biglietto timbrato. A Roma ha aderito all’iniziativa il Nuovo Cinema Aquila, a Torino il Cinema Erba”.
“Non ho pensato al ‘Fantastico mondo di Amélie’, almeno non consciamente, poi ho capito che lo potesse ricordare, l’attenzione era puntata a non scivolare più nel concreto di quello che poteva risultare; il fantastico non era eccezionale ma un po’ normale. Il problema della sceneggiatura era che bastava cambiare un verbo e la reazione diventava strana, al montaggio bastava spostare la cosa più sciocca e la storia no filava più, poi ci dovevano essere ambienti avvolgenti in cui non sapevi dove dovevi essere”. Nel cast anche Claudia Amato (Roberta bambina), Edoardo Olivieri (Massimo bambino), Asya Pignanelli (Roberta adolescente), Anna Ferraioli Ravel (Cecilia), Sara Putignano(Rita), Pietro Bontempo (padre di Roberta), Beatrice Uber (madre di Massimo), Giuliano Comin (padre di Massimo), Francesca Cuttica (Federica), Francesca Faiella (conduttrice tv), Salvatore Esposito (Saverio) e Rolando Ravello (Vincenzo). José de Arcangelo
(3 stelle su 5) Nelle sale di Roma e Torino dal 9 aprile, successivamente a Milano e nelle altre città, distribuito da Adagio Film in 15 copie

Nessun commento: