giovedì 7 maggio 2015

"Leviathan" del pluripremiato Andrey Zvyagintsev, un potente dramma esistenziale che prende spunto dalla realtà filtrandola attraverso il calvario di Giobbe e la filosofia di Hobbes

In concorso al Festival di Cannes 2014, “Leviathan” del russo Andrey Zvyagintsev si è aggiudicato il premio per la miglior sceneggiatura, successivamente ha vinto il Golden Globe per il Miglior Film Straniero e ha avuto la nomination all’Oscar 2015 nella stessa categoria.
E’ un potente e amaro dramma esistenziale contemporaneo sull’uomo che non può sfuggire la dura e cruda realtà del potere (supremo). Apparentemente ‘locale’, “Leviathan” nuovo capolavoro dell’autore de “Il ritorno” - Leone d’Oro e Leone del Futuro 2003 al Festival di Venezia - e “The Banishment” - migliore interpretazione maschile a Cannes 2007 -, nonostante sia ambientato in una Russia quasi priva di riferimenti, pian piano acquista un valore universale. Infatti, lo spunto viene da una storia realmente accaduta, raccontatagli negli Stati Uniti dalla sua interprete, a Marvin John Heemeyer, perseguitato dai proprietari del terreno dove aveva la propria officina perché la vendesse e che, dopo il suo rifiuto, fecero erigere una recinzione attorno a tutta la proprietà. A quel punto Heemeyer si procurò un gigantesco bulldozer con una blindatura anti proiettile e distrusse tutti i palazzi della proprietà, la recinzione che lo aveva isolato dal mondo e si diresse verso il paese dove iniziò a demolire una dozzina di edifici pubblici e alla fine si suicidò, dopo aver urlato “Prima nessuno ha voluto ascoltarmi e ora dovete ascoltarmi tutti”. Zvyagintsev, col fedele sceneggiatore Oleg Negin, ha adattato questo terribile fatto di cronaca alla Russia più profonda – il villaggio di Teriberks, sulla costa del Mare di Barents - fondendola con la storia biblica di Giobbe e il trattato del filosofo inglese Thomas Hobbes “Leviathan or the Matter, Forme and Power of a Common – Wealth Ecclesiasticall and Civil”. Ma il regista ha scoperto anche il racconto di Heinrich von Kleist “Michael Kohlaas (portato sullo schermo da Volker Schlondorff in “La spietata legge del ribelle”, 1969), che gli ha confermato che si tratta di una storia eterna.
Kolia (Alexey Serebryakov) vive in una cittadina vicino al Mar Glaciale Artico, dove ha un’officina meccanica, accanto alla casa dove abita con la giovane moglie Lilya (Elena Lyadova) e il figlio adolescente Roman (Sergey Pokhodaev), nato dal primo matrimonio. Ma il sindaco del villaggio, Vadim Shelevyat (Roman Madyanov), vuole portargli via la sua officina, la sua casa e la sua terra per i suoi loschi affari. Prima cerca di convincere Kolia a vendere, ma l’uomo non vuole perdere tutto quello che ha, non solo la terra ma tutta la bellezza di cui è circondato fin dalla nascita, incluse le sue radici. E, nonostante abbia l’aiuto di un suo ex commilitone Dimitri (Vladimir Vdovitchenkov) ora celebre avvocato a Mosca, non riuscirà a fermare la violenza, anzi l’abuso di potere del sindaco che cercherà di incastrarlo ogni costo, persino facendolo accusare di omicidio. Per Kolia inizia un incubo senza fine e la sua intera esistenza va a rotoli…
Oltre la realtà contemporanea, la Bibbia e Hobbes, un altro riferimento dell’autore è senza dubbio la tragedia greca, così come l’atmosfera ricorda quella lucida e dolorosa del grande Dostoevskij. Un dramma coinvolgente che si trasforma in metafora del potere e che trasmette allo spettatore non solo emozioni, ma anche quella sensazione d’impotenza che si prova quando si diventa vittime dell’arroganza del potere che mette in moto tutte le sue armi proprie e improprie (dalla legge alla burocrazia, dalla corruzione alle forze armate) per ottenere quello che vuole e negare tutto quello che può. Contro un eccesso di potere scatta spesso un eccesso di difesa che, in certi casi, non basta a salvarci.
“Quando un uomo – afferma Zvyagintsev - si sente stretto in una morsa di ansia di fronte alla necessità e all’incertezza, quando si sente sopraffatto da immagini fosche del futuro, quando è spaventato per i suoi cari e timoroso che la morte sia vicina, che cosa può fare se non rinunciare alla sua libertà e ai propri diritti naturali e consegnare questi beni preziosi, stringendo un patto con gli altri individui, ad una singola persona di fiducia in cambio di sicurezza e protezione sociale o addirittura dell’inserimento in una illusoria comunità”.
Però man mano il mondo gli crolla addosso perché si sente sempre più isolato perché viene tradito persino da quelli che dovrebbero, se non aiutarlo, almeno sostenerlo ed amarlo incondizionatamente. “La visione di Thomas Hobbes dello Stato – aggiunge l’autore – è quella di un filosofo sul patto dell’uomo col diavolo: lo vede come un mostro creato dall’uomo per evitare la guerra del ‘tutti contro tutti’ e per il suo comprensibile bisogno di ottenere sicurezza in cambio della propria libertà, l’unico vero proprio bene. Proprio come siamo tutti fin dalla nascita macchiati dal peccato originale allo stesso modo siamo nati tutti in uno Stato”.
Quindi, libertà, giustizia e verità diventano parole vuote in una società e in un mondo retti dal potere dello Stato e delle religioni – esercitato sempre da altri uomini – e che possono, a loro volta, essere condivisi, coesi o sostenuti da altri poteri oscuri quali mafia e corruzione.
Perfetto il cast che conta anche su Anna Ukolova (Angela) e Alexey Rozin (Pacha), la coppia di amici di famiglia. Avvolgenti e azzeccate le musiche di Philip Glass che sottolineano l’effetto claustrofobico anche negli esterni di una natura imponente e di rara bellezza esaltata dalla fotografia di Mikhail Kritchman. José de Arcangelo
(4 stelle su 5) Nelle sale dal 7 maggio distribuito da Academy Two

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