mercoledì 29 febbraio 2012

Da Rebibbia a Berlino e ritorno, approda nelle sale l'Orso d'oro "Cesare deve morire" dei fratelli Taviani

Dopo il trionfo al Festival di Berlino, dove si è aggiudicato l’Orso d’Oro, approda nelle sale italiane “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani. Non è un documentario sui carcerati – come qualcuno ha detto – ma nemmeno la ripresa della rappresentazione teatrale del “Giulio Cesare” di William Shakespeare, ad opera di una delle tre compagnie di detenuti/attori attive nel carcere romano di Rebibbia. Ma tutt’altro, anzi si tratta di vero cinema. Il cinema di Paolo e Vittorio Taviani che non è mai esercizio di stile a se stesso e nemmeno finzione tradizionale né dramma tout court né commedia all’italiana. Un film - “non volevamo un genere” - che comprende tutto perché parla di uomini e di emozioni, di conflitti e contraddizioni, di delitti e omicidi, tradimenti, odio, tormenti ed altro ancora.

“L’avevano visto in molti – esordisce Paolo sulla ricerca di una distribuzione a film finito -, Nanni (Moretti, che lo distribuisce con la sua Sacher Film ndr.) ha accettato immediatamente perché per molti anni ha collegato se stesso a noi. Lui che ha debuttato come attore in ‘Padre padrone’ veniva allora da noi per farci vedere i suoi super8. Siamo molto contenti che l’abbia scelto”.
“Anche questa volta ci è venuto incontro il caso – aggiunge sull’origine del film -. Una nostra cara amica, Daniela Bendoni, ci ha detto che a Rebibbia i detenuti recitavano Shakespeare, e se volevamo piangere dovevamo andarci. Non conoscevamo Fabio Cavalli (co-responsabile delle attività teatrali del carcere che dirige la Compagnia dei Liberi Artisti Associati che impegna i detenuti-attori della sezione Alta Sicurezza, che ha collaborato anche al film ndr.) e pensavamo potesse essere un’esperienza limitata, invece siamo rimasti fulminati ed emozionatissimi perché recitando alcuni canti dell’Inferno di Dante, i detenuti si confrontavano col loro inferno, e questi si mischiavano. Rivolgendosi al pubblico, l’attore quarantenne che leggeva ‘Paolo e Francesca’, diceva ‘forse voi non potete capire fino in fondo l’amore impossibile, il pianto e il dolore che viviamo da tanti anni lontani dalle nostre donne. Alcune non ci aspettano, altre aspettano disperate’. E modificando anche la lingua di Dante, offrivano col napoletano suoni nuovi, strani. Così abbiamo deciso di fare un opera cinematografica su questa nostra più grande emozione degli ultimi anni”.
“Con Zazà (Salvatore Striano), Fabio (Rizzuto)
- che ora sono uomini liberi - e gli altri il rapporto è stato di complicità - ribatte Vittorio -, quella che nasce quando insieme si cerca la selvaggia verità attraverso l’opera. Essere se stessi interpretando personaggi diversi, soprattutto nella scena dell’orazione di Marc’Antonio che parla di Bruto come uomo d’onore. E loro sono quasi tutti uomini d’onore. Inoltre è una storia italiana radicata nella memoria collettiva, la congiura contro il capo. Un tradimento del passato che hanno vissuto e rappresentato nel loro quotidiano. In loro c’è anche del talento, ma non tutti possono recitare Shakespeare. Portano pure nello sguardo la memoria di un passato, di una colpa e di un presente, il carcere/inferno, che si insinua dentro la loro vita. Possono aver commesso dei crimini ma restano pur sempre uomini”.
“Noi ogni giorno ci chiediamo ‘cosa raccontare, esprimere in un film’ – prosegue -; tra incubi notturni, drammi nostri o nei confronti di quelli degli altri. E quando questi diventano importanti ed esigono una risposta, arriva qualcosa che ti piacerebbe raccontare agli altri. Ma se non è un’emozione così forte, chiara, violenta, non se ne fa niente. Qui c’è una realtà antica nel carcere, Bruto, Cesare... Per noi era poter fare per la prima volta una riflessione attraverso Shakespeare – anche se lo avevamo citato in diverse occasioni -, tirare fuori delle emozioni che purificassero quello che avevano fatto. Una forza in più, una presa di coscienza, un modo di rivendicare l’assassinio, rievocare un passato da cui veniva fuori la verità”.
“La nostra idea di proporre il ‘Giulio Cesare’ fu immediata – aggiunge Paolo -: gli uomini a cui facevamo la proposta rispondevano a un loro passato, lontano o recente, di colpe e delitti, di valori offesi, di rapporti umani spezzati. Bisognava contrapporgli un’opera di eguale forza, ma di segno opposto. In questa storia italiana, Shakespeare porta in campo i grandi rapporti che legano o contrappongono gli uomini, l’amicizia e il tradimento, il potere e la libertà, il dubbio. E il delitto, l’assassinio. Due mondi che in qualche modi si rispecchiano. Inoltre, per noi l’autore è come una rosa aperta rivolta al cielo in attesa di qualcosa – come diceva anche Pirandello -. Poi arriva
il vento, un ape una goccia e diventa produttiva”.
“Non avevamo soldi per la pellicola e per noi era la prima volta che giravamo in digitale e in bianco e nero – confessa -, eravamo diffidenti e spaventati. Però mentre con la pellicola stavamo sempre attenti a non girare troppo (40/50 mila metri), anche perché il produttore ci ricordava di tenere (buona) la prima, qui è stata una vera pacchia. Vai avanti con assoluta libertà, ma poi ti ritrovi con la condanna di un materiale enorme. Così la scelta è stata lunga e complicata”.
Ma comunque ne hanno ricavato soltanto un’ora e mezza scarsa di vero cinema, un concentrato più unico che raro di emozioni e sentimenti, realtà e finzione.
“Lavorare insieme in un film crea anche amicizia e anche questa volta siamo diventati amici dei nostri attori. ‘Non vi affezionate troppo - ci mormorò un agente – anch’io che vivo in familiarità con loro ogni tanto provo pietà, amicizia… poi con fatica, dico no. Voglio, devo ricordare chi ha sofferto e soffre più di loro, le vittime e i loro familiari’. E’ vero, ma il giorno che il film è finito e abbiamo lasciato il carcere e i nostri attori, il saluto è stato commosso. Cosimo Rega-Cassio salendo le scale verso la sua cella, ha alzato il braccio e ha gridato: ‘Paolo Vittorio – in un solo nome - da domani niente sarà più come prima!’”.
E una sua frase, presa in prestito
dai fratelli registi, chiude anche il film: “Da quando ho conosciuto l’arte, questa cella è diventata una prigione”. Segno che l’arte da una parte libera la coscienza, dall’altra ci rende coscienti della nostra vera condizione.
José de Arcangelo

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