martedì 30 ottobre 2012

Da Venezia sbarca ora in tutta Italia "La nave dolce" di Daniele Vicari, per capire e riflettere sugli ultimi vent'anni della nostra storia

Alla presentazione romana di "La nave dolce" di Daniele Vicari, è stato consegnato il Premio Pasinetti per il Miglior Documentario 2012, del Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani, al regista dalle mani di Franco Mariotti. Il film, presentato fuori concorso al 69° Festival di Venezia, si era subito dimostrato uno dei "candidati naturali - secondo i giornalisti del SNGCI - e una volta visto, il giudizio era stato confermato. Si sa - proseguono - i giornalisti, per necessità, non guardano molto l'estetica, ma soprattutto i contenuti, i temi e le riflessioni, che tendono a giustificare la storia che un film può raccontare o no". Però il lavoro di Vicari, non è il tradizionale documentario perché ricostruisce un avvenimento storico - "lo sbarco dei ventimila" albanesi dell'8 agosto 1991, il primo respingimento di massa in Italia - attraverso un'indagine accurata, il recupero di materiali e filmati anche inediti, da entrambe le parti, con la testimonianza di alcuni degli immigrati allora rimasti o respinti - dal noto ballerino Kledi Kadiu al regista Robert Budina ed Eva Karafili, laureata in economia che oggi vive in Puglia con la sua famiglia e alterna il lavoro di traduttrice a quello di badante -, e spinge lo spettatore a riflettere con obiettività e a non dimenticare, perché è stato una sorta di segno iniziale della situazione socio-politica creatasi nel nostro paese negli ultimi vent'anni.
Racconta "l'inattaccabile verità per evitare che ne accadano altri fatti del genere, un tentativo non trascurabile di risvegliare la memoria che purtroppo da noi è assopita e vacillante. Un richiamo e un appello a non dimenticare". "Sono sostenitore e fan di questo film, coraggioso, emozionante - esordisce lo scrittore Mario Desiati -, perché racconta una parte della nostra storia recente e del nostro rimosso. Allo Stadio della Vittoria c'erano moltissimi ragazzini come me, che allora avevo 12 anni e mezzo, e la sensazione fu che stava avvenendo un evento storico. Credo che per il nostro paese sia qualcosa di molto simile a quello accaduto in Germania con la caduta del muro di Berlino, perché allora c'erano poche centinaia di migliaia di immigrati, e oggi sono milioni. Quella nave, la Vlora ("dolce" perché trasportava lo zucchero da Cuba ndr.), rappresenta i nostri paesi cambiati, i centri storici disabitati, abbandonati che pian piano si sono riempiti di lingue diverse, prima gli albanesi poi arabi, cinesi... E una delle prime regioni è stata proprio la Puglia. Incontrai allora uno di quei ragazzi riusciti a scappare; che nudi, senza scarpe, avevano i nostri stessi corpi, gli stessi fisici, ma anche le rughe della storia che iniziava a cambiare per noi".
"Io mi ricordo l'emozione vivissima di quando ho iniziato la ricerca - afferma Vicari -, ho notato che ad un certo punto gli operatori televisivi cominciavano a stringere il campo, dalla nave, passavano alle persone che scendono, si buttano in acqua, fino ai volti, ai dettagli. Stringere il campo per restituire umanità all'avvenimento, la capacità di andare in dettaglio con le telecamere, a scandagliare i corpi, i volti, il dolore, la gioia. Non è più una massa indistinta, ma bambini, uomini, donne". "Non è stato un viaggio premeditato - ribatte Kledi Kadiu -, all'improvviso abbiamo scoperto che era l'unico modo di andare via, eravamo attratti dall'Italia, dalle cose belle che vedevamo in tivù; era arrivato il momento di scappare via, con l'unico mezzo sequestrato (la nave ndr.), ma non era una crociera, tutt'altro. Ma è stata anche l'incoscienza che ci ha fatto scattare in quel modo, un'esperienza per me, comunque, 'bellissima' perché non vivrò più una cosa del genere, nemmeno a pagamento, l'occasione di avere la sensazione di essere parte di quella storia". "Abbiamo raccolto l'invito dell'Apulia Film Commission - dice Francesca Cima di Indigo Film che lo coproduce -, che aveva avuto l'idea, l'intuizione di ricordare i vent'anni dell'avvenimento due anni fa, pensando fosse uno dei momenti fondamentali della nostra storia e ormai quasi dimenticato. Abbiamo così iniziato a discutere e parlare, poi è stato proposto a Rai Cinema come coproduzione italo-albanese. Credo i due film (l'altro è 'Diaz', girato proprio contemporaneamente ndr.) si leghino nella voglia di raccontare, guardare dentro gli avvenimenti del nostro paese, scrutarli e ripresentarli, perciò ci siamo detti 'può uscire al cinema'. Non tutti i documentari sono proponibili per le sale. Una sfida che portiamo avanti con Microcinema (che lo distribuisce dall'8 novembre ndr.) perché pensiamo esista un pubblico per questo cinema, risvegliato, preparato".
Sono tante le associazioni nazionali e internazionali che aderiscono all'iniziativa e al film, dall'Unicef ad Amnesty International. Il 6 novembre al Teatro Valle Occupato di Roma ci sarà un'anteprima promossa dall'Associazione a Buon Diritto, dopo una lettura del rapporto scritto dall'Associazione Lampedusa non è un'isola, da parte di Ascanio Celestini. Il documentario uscirà in 30/35 sale italiane di qualità, a Roma al Tibur, e ci sarà un tour per accompagnarlo, guidato dallo stesso Daniele Vicari e da qualche 'testimone', lungo tutta l'Italia. "La pozione magica non c'era più - confessa Kadiu a proposito dello sbarco -, c'era la delusione per quel paese che avevamo visto come il Paradiso, con cui eravamo cresciuti, di grande bellezza in tutti i sensi. Invece siamo stati accolti coi manganelli e col rifiuto, da un paese e un popolo che ritenevamo amico e fratello". "Non è un film di denuncia - ribatte il regista -, mostra un fatto con tutte le sue criticità, un paese diviso in due sul come intervenire, da una parte Cossiga che proponeva il recinto e il rimpatrio, dall'altra quella di Bari, del Sindaco che controponeva un'accoglienza diversa da quella del governo. E' anche vero che c'è una differente visione territoriale e nazionale, ma c'era l'occasione di parlarsi e trovare una soluzione insieme. L'Italia è intimamente divisa fin dalle istituzioni nei confronti degli arrivi, e non solo. Capita la dimensione reale del problema, si può discutere su chi può venire, però la ferocia nella gestione di questa odissea è epocale e si è rivelata persino inefficace, se c'erano prima 200mila immigrati e oggi sono più di 4 milioni. Nello Stadio di Bari ci sono i prodromi dei ciad, una zona franca dove non valgono le leggi della democrazia, dello Stato. In nuce chiudere nei recinti le persone che non hanno documenti in regola".
"Ritengo che il documentario italiano negli ultimi dieci anni - prosegue Vicari -, dall'interno del cinema, sia la grande chance per la nostra cinematografia; che il mondo produttivo intorno al cinema documentario a volte travalichi, vada oltre il cinema di finzione. La quantità in questo caso diventa qualità, e affrontare il presente, l'intreccio di vicende a carattere documentario è molto difficile. Non è facile raccontare un evento collettivo al cinema, il territorio privilegiato del racconto cinematografico solitamente è l'eroe o l'antieroe. Io ho avuto la fortuna di poter fermarmi per un anno (per realizzare 'Diaz'), l'occasione di riflettere sul montaggio, tanto che i produttori temono che ora ogni volta vorrò fermarmi un anno; di guardare con un minimo distacco, trovare il montaggio e la musica giusta, che permette di evitare al massimo errori narrativi e stilistici. Ed è stata anche una grandissima sfida". "Per me il documentario e la finzione sono la stessa cosa - continua -. 'La nave dolce' si intreccia nella mia coscienza di narratore con 'Diaz'. Non so dire fino in fondo il perché, ma sento che hanno qualcosa in comune. Oltre alla casualità di essere stati realizzati contemporaneamente, parallelamente, entrambi raccontano episodi colletivi che rappresentano una porzione di avvenimenti storico-politici più grandi e complessi, lavorando su entrambi mi sono chiarito sul come raccontare eventi di massa - l'unico precedente che mi viene in mente è 'La Battaglia di Algeri' (di Gillo Pontecorvo ndr.) -, la struttura migliorè è quella della tragedia classica in 5 atti (tipo 'La Gerusalemme liberata', che racconta cinque anni di avvenimenti storici). Potrei sempre scegliere un eroe, ma questo poi tradirebbe lo spirito collettivo, perché il racconto deve essere frutto di tanti punti di vista. Infatti, entrambi i film nell'essere la 'pars pro toto' tentano di restituire il senso del
tutto attraverso l'esperienza di una molteplicità di persone. Pochi esempi nel cinema, forse l'unico è del 1925, 'Sciopero' di Eizensteijn, che racconta in cinque atti le lotte operaie avvenute nel 1914 in Russia, come in Italia e in tutta l'Europa. E anche dal punto di vista storico-politico vedo una continuità tra i due episodi: Cossiga che scende dall'aereo e va a rivendicare in conferenza stampa il primo respingimento avvenuto in Italia, è per me il segno del grande cambiamento politico avvenuto nel nostro paese dopo il crollo del muro di Berlino. Da quel momento in poi la gestione dell'ordine pubblico tende a sostituirsi alla politica sul piano dei diritti sociali e civili. Un'involuzione democratica in piena regola che ha trovato la sua massima espressione a Genova nel 2011". "Forse questa è stata l'unica difficoltà - confessa -, perché intorno a me c'è un efficace gruppo di lavoro, fino alla scelta di Microcinema. Un gruppo che si appassiona al film, che mi ha permesso di superare tutte le difficoltà tecniche, burocratiche e pratiche. La struttura narrativa, il tema del film, la grande migrazione. Il significato è sulla testa di uno spillo, bisogna individuare il senso ultimo, e penso che lo debba dire allo spettatore: è proprio la perdita dell'innocenza da parte di un intero popolo. Come chi ha un sogno, pensa al futuro, e quando mette le mani rimane scottato. Un senso profondo, almeno credo, anche per chi l'ha vissuta dall'altra parte. La politica italiana è divisa, indecisa, oggi trasforma ogni cosa in emergenza, ma ha difficoltà ad affrontare le questioni storiche e politiche".
Vito Leccese, Assessore alla Sanità del Comune di Bari, allora ventenne - aggiunge -, proveniente tra l'altro dall'ambiente della sinistra, in una giunta dominata dalla DC, perché la Puglia era democristiana nel profondo, rappresenta la grande sensibilità di Bari, e si rende conto che la città era diventata una frontiera, e di come due anni prima l'Italia intera fosse diventata una frontiera, un'idea che non sfiora nemmeno l'anticamera del cervello del governo nazionale. E gli immigrati pensavamo che Italia fosse un posto meraviglioso che li potesse accogliene, invece era ed è un paese contraddittorio, e restano impigliati nell'amo. Queste cose bisogna approfondirle, c'è un fatto oltre la realtà mediatica, l'Italia nel Mediterraneo è un punto di riferimento anche culturale, un'immagine che non abbiamo nemmeno noi, non ci rendiamo conto di questa responsabilità nei confronti di tutto il mondo. Abbiamo la Cappella Sistina ed è nostra responsabilità conservarla, perciò quando accadono fatti come quello di Pompei in tutto il mondo dicono 'questi sono pazzi'. Dopo più di 20 anni, bisogna guardarsi indietro, capire la cultura che esprimiamo come popolo, perché chi viene pensa che stiamo meglio, che siamo un paese importante che può dargli delle cose. Noi non siamo consapevoli della nostra ricchezza".
"Dopo la caduta del muro, la crisi politica istituzionale in Italia non si è risolta - afferma -, nemmeno nell'elaborazione culturale sul fatto che eravamo un paese di frontiera; lo spaesamento era fortemente influenzato da due blocchi, comunista e democristiano, anche nell'intimo delle persone. Infatti, l'antiamericanismo lo ritrovi anche a destra, è un tipo di atteggiamento; ed è vero anche per lo stalinismo. Nelle nostre coscienze non è ancora finita, visto che abbiamo permesso che governassero il paese dividendolo ancora in due. L'impegno civile, segno di civiltà di un paese, viene considerato un fatto di ordine pubblico e affidato alle forze armate. Una gestione che fa capire quanto sia stata digerita la democrazia e quanto non. Il fatto della Vlora è stata una gestione antidemocratica, che fa venire in mente il Cile, perché anziché gestire i problemi sociali, o ascoltare quello che hanno da dire le persone, le chiude in un recinto e le reprime. Una civiltà di diritto in cui, dieci anni dopo, a Genova successe la stessa cosa peggiorandola. Una struttura simile perché l'evento era stato messo nelle mani dell'esercito che semplifica, organizza una deportazione, una repressione/deportazione. Mette in moto una nave gigantesca in assenza totale di una decissione politica su un problema sociale. Le forze dell'ordine a loro modo hanno eseguito il mandato. E non facendo una vera attività politica si mettono in discussione tutti i diritti democratici". "Allora avevo 17 anni - riprende Kadiu -, dopo due anni sono tornato come studente lavoratore, poi sono stato clandestino di nuovo, infine in regola e ora ho la cittadinanza. Forse sono uno degli artisti privilegiati, perché solo Tirana è il centro della cultura, e allora non potevamo fare altro che danza classica, era un obbligo per tutti, per poi fare la ruota sempre sugli stessi balletti. Io avevo voglia di sperimentare altro, quello era il mio punto di partenza. A me è andata bene".
"Gli italiani allora erano molto più curiosi delle persone - prosegue -, oggi, parlando con altri immigranti, ho saputo che non è più così, l'immigrato viene visto come nemico pubblico, che si prende il lavoro, e chi viene qua viene considerato per forza un morto fame, un perseguitato politico, uno che fugge da una guerra, e non solo per migliorare la sua vita. Da tre anni sono testimonial dell'Unicef per la campagna che mi tocca di più, quella degli adolescenti nati in Italia che non vengono considerati uguali ai bambini itaiani, e cerco di raccontarlo anche attraverso la mia esperienza. Faccio anch'io i complimenti a Daniele perché il film possa portare le nuove generazione a non dimenticare quello che hanno. La gente oggi è molto divisa soprattutto sugli affari".
"Oggi non riusciamo a distinguere i media dalla classe politica - conclude il regista -, è un rispecchiarsi reciproco, la presa di coscienza su certe questioni è un problema vero. Se si considera come nemico un'intera categoria sociale, vengono fuori dei guai, in questo modo non siamo ancora molto distanti dal nazismo, che ci auguriamo non accada mai più. Ma è la storia precedente che abbiamo, sopravvive nell'atteggiamento di esclusione sociale che riproduce in modo violento modelli folli, che crediamo ormai fuori ma non lo sono. Sono fatti che lo scrittore, il regista devono proporre. Lo dico come assunzione di responsabilità, non ho mai creduto nella società cinica in cui la funzione della cultura stia per cadere completamente. La funzione del romanzo, del film, del quadro e della poesia può e deve essere esercitata, perché sono un piccolo, anche se non determinante, avanzamento della coscienza sociale". José de Arcangelo

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