La retrospettiva dedicata dalla 45a. Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro al Cinema Israeliano Contemporaneo si è rivelata vivacissima ed illuminante, soprattutto per il pubblico italiano che, negli ultimi anni, aveva avuto occasione di conoscere alcune delle opere più rilevanti della nuova generazioni di registi – da Eytan Fox ad Ari Folman -, oltre a quelle dell’‘apristrada’ Amos Gitai. Certo, era stato solo un assaggio ma assai gustoso.
L’inaugurazione della rassegna è stata riservata agli interessanti ed esaustivi documentari di Raphael Nadjari – a cui il festival ha dedicato un omaggio presentando altri due suoi lungometraggi di fiction – “History of Israeli Cinema” parte 1° e 2°. Un viaggio attraverso un cinema che è passato dall’essere considerato un’industria per finire, giustamente, sotto la tutela del Ministero della Cultura solo alla fine degli anni Novanta. Proprio quando è stato capito che il film israeliano, anche popolare e di successo, non sarebbe mai stato in grado di guadagnare più soldi di quelli spesi nella produzione.
Un passaggio che è stato lento ma che ha dato i suoi frutti. Dal film del movimento sionista a quello commerciale, dal cinema politico o ideologico a quello d’autore, per approdare infine al cosiddetto ‘cinema personale’, privato, spesso intimista e claustrofobico che però diventa sempre e comunque specchio della realtà odierna, di un’insoddisfazione generale, non solo provocata dalla guerra permanente. Raccontato con interventi/interviste ai registi, attori, produttori, critici e studiosi ed illustrato con sequenze dei film più rappresentativi degli ultimi sessant’anni, l’opera ci fa conoscere la storia ma anche i suoi protagonisti e le loro opere, le sue origini e le prospettive per il futuro.
Il via alla vera e propria monografica è stato dato da “Beaufort” di Joseph Cedar (2007), un intenso e toccante dramma sull’assurdità della guerra, tratto dal reportage di Ron Leshem. Narra la ritirata israeliana dalla roccaforte di Beaufort in Libano, rasa al suolo il 24 maggio 2000, dopo 18 anni di occupazione.
“L’articolo di Leshem su ‘Yedioth Acharonot’ – dice il regista -, in cui venivano riportate le esperienze di un ufficiale israeliano in Libano, mi colpì profondamente. Mi resi conto d’un tratto che l’orribile, quasi incredibile storia su soldati che muoiono in una guerra ridicola era anche la mia storia, con la quale però non mi ero mai confrontato. Le paure che avevo represso per anni riemersero al punto di farmi piangere”.
E il suo film colpisce e commuove perché ci rende partecipi di un’inutile attesa, dei soliti assurdi ordini e delle missioni che servono solo ai governanti per salvare la faccia, per mantenere un’immagine forte e stabile. Senza tener conto veramente degli uomini, né dei loro pensieri né tanto meno dei loro sentimenti.
“Broken Wings” di Nir Bergman (2002) fa invece parte del sopraccitato ‘cinema personale’, perché affronta un dramma familiare che sottolinea l’insoddisfazione di tutti i protagonisti senza eccezioni.
La morte del marito ha messo in difficoltà Dafna e i quattro figli: il figlio ventenne Yair non sa ancora che farà della sua vita e rifiuta le istituzioni (soprattutto la scuola); la figlia diciassettenne Maya vuole fare la cantante e talento ne ha, ma si sente colpevole della morte del padre; il maschio più piccolo, Ido, è quello che sente più la mancanza del genitore e rischia la vita lanciandosi nel vuoto da posti sempre più alti; mentre la piccolina, Bar, deve ancora essere accompagnata e ripresa all’asilo ma… c’è spazio solo per una crisi dopo l’altra.
Un dramma fra lacrime e sorrisi, forse troppo pessimista, ma che dimostra che nemmeno la vita quotidiana in Israele è tutta rose e fiori, cioè non esiste solo la guerra convenzionale ma soprattutto quella privata, quella di ogni giorno. Spesso altrettanto dura e cruda.
Una vera sorpresa è stata la comedy-dramma dei fratelli Ronit (anche premiata attrice) e Shlomi Elkabetz, “Shiva - I sette giorni”, una sorta di ‘parenti serpenti’ in salsa israeliana che - tra commedia grottesca e tragedia familiare -, ci fa ridere e piangere con la stessa intensità, grazie anche a un cast tanto efficace quanto affiatato. E in filigrana i complessi rapporti multietnici, visto che in questo caso si tratta di una famiglia ebrea originaria del Marocco.
1991: la famiglia Ohaion piange la morte di un congiunto, il rimpianto Maurice. Rispettosi della tradizione, i parenti si riuniscono nella casa del defunto per la veglia funebre che deve durate sette giorni, come da titolo. Ma ben presto i conflitti e i rancori mal nascosti prendono il sopravvento e la coabitazione diventa insostenibile, segno che “tutto il mondo è paese” e che i contrasti causati dagli interessi (soprattutto economici) non hanno barriere né sentimenti. Quindi, tra sentimenti e risate, un film che diverte e commuove al tempo stesso, anche lo spettatore più smaliziato.
“Durante la guerra del golfo – affermano gli autori – la gente si chiudeva in casa perché temeva attacchi chimici o nucleari. Avevamo in mente questo quando abbiamo deciso dove ambientare il film: tutti i membri della famiglia confinati contro la loro volontà in una piccola casa da cui volevano fuggire”.
Per l’omaggio a Raphael Nadjari, sono stati proiettati “Avanim – Pietre”, un altro dramma che affronta il tema della religione – altra costante del ‘cinema personale’ degli ultimi dieci anni, ma pressoché assente prima – dal punto di vista femminile, un po’ come aveva fatto Amos Gitai in “Kadosh”. Una pellicola toccante e sofferta: la storia della trentenne Michale, sposata e con un figlio, che lavora col padre in un’azienda contabile di Tel Aviv che ha per clienti istituzioni religiose (ultra) ortodosse. Ogni giorno cerca di conciliare i suoi impegni professionali, la famiglia e la relazione con il suo amante. Ma proprio la morte di quest’ultimo, in un attentato terroristico, è la goccia che fa traboccare il vaso: lei, sconvolta, si prende una notte per riflettere, viene cacciata di casa e finisce per denunciare il rabbino per frode, tirandosi dietro l’inimicizia di tutti (i maschi), ortodossi e non.
“In ebraico avanim significa ‘pietre’ – dice il regista -. Questo paese è pieno di pietre, e sono tutte simboliche. Ci sono le pietre del ‘muro del pianto’; le pietre con cui si costruiscono case e scuole; quelle tirate dai religiosi ai laici, e dai laici ai religiosi. Ci sono le lapidi, e le pietre che si pongono sulla cima della tombe come segno di commemorazione. Queste pietre ci segnano e diventano punti interrogativi. Possono servire a distruggere ma possono servire anche a costruire, ad edificare. C’è una frase riferita a Saint-Just, durante la Rivoluzione Francese: ‘Con le stesse pietre possiamo erigere alla libertà un tempio o la sua tomba”.
E così succede anche alla donna in una società che riprende/ritorna alle tradizioni più repressive ed assurde riguardo il femminile, purtroppo non solo nell’ebraismo, anzi.
Il secondo lungometraggio di Nadjari è l’amaro e lucido “Salmi”, presentato nella selezione ufficiale a Cannes e qui a Piazza del Popolo (la prima proiezione all’esterno dopo tre giorni di maltempo). Un dramma familiare che affronta ancora una volta l’argomento religione, un fatto che spesso esaspera le crisi private, tra incomprensioni ed intolleranza, tra vecchio e nuovo.
“5 giorni” di Yoav Shamir è invece un documentario, la cronaca dei cinque, drammatici, giorni dello sgombero di ottomila coloni dalla striscia di Gaza e dal West Bank per fare (ridare) spazio a 250mila palestinesi, un provvedimento stabilito nel 2004 dal governo Sharon ed iniziato il 14 agosto 2005. Il 15 scattò l’operazione ‘Mano tesa ai fratelli’ che prevedeva, infatti, aiuti e indennizzi per chi avesse deciso di lasciare le abitazioni di sua volontà entro le ore 24 del giorno successivo. Però dal 17, le autorità passarono allo sgombero forzato, visto che gran parte dei coloni si rifiutava di lasciare le loro case. Il 22 agosto tutti i coloni furono riportati entro i confini di Israele.
Interessantissimo anche il documentario di repertorio “Children of the Sun” di Yaldei Ha’shemesh (2007) – passato alla Festa del Cinema di Roma 2007, sezione Extra – sull’esperienza di vita collettiva dei kibuttz nella Israele di oltre cinquant’anni fa. Un’opera realizzata con filmati professionali (pubblici) e familiari (privati) nel quale il regista ricostruisce un esperimento fantastico e doloroso al tempo stesso, perché i bambini venivano allevati dalle balie, e i genitori li vedevano solo per qualche ora al giorno.
Giovedì 25 giugno è stata la volta della variegata tavola rotonda sul Cinema Israeliano Contemporaneo – a cui la 45a. Mostra Internazionale del Nuovo Cinema ha dedicato un volume omonimo (Saggi Marsilio) -, con autori, registi, critici e studiosi. Un’occasione unica per conoscere i retroscena produttivi, culturali ma anche socio-politici e religiosi di un paese che resta ai più ancora sconosciuto, al di là e al di fuori dell’eterno conflitto israelo-palestinese.
“La situazione che si è creata alla fine del XX secolo – esordisce Ariel Schweitzer, storico del cinema, critico e docente universitario israeliano -, una profonda crisi di finanziamenti legata al disinteresse delle istituzione statali, ma anche del pubblico, nei confronti del cinema nazionale ha fatto scendere la produzione a 5/6 film all’anno. Un gruppo di cineasti decise allora di organizzarsi e indire una serie di manifestazioni politiche e mediatiche al fine di modificare la politica governativa in materia cinematografica. Nel 2000 il governo vota una nuova legge per il cinema che garantisce il raddoppiamento dei finanziamenti governativi a favore degli istituti di produzione. Attualmente il budget si aggira sui 12/14milioni di euro, fatto che garantisce una certa stabilità nel settore. In secondo luogo è stato firmato un’accordo di coproduzione con la Francia, elaborato dal Centre National de la Cinématographie (CNC) e dal Consiglio israeliano del Cinema. Ora la produzione raggiunge quota 25 lungometraggi di fiction e di un centinaio di documentari l’anno. Inoltre c’è stato anche uno sviluppo delle scuole di cinema che oggi sono 17, una cifra rilevante per un paese abbastanza piccolo e dove si laureano circa duecento studenti all’anno”.
“L’essenza di questa tragedia – afferma il giornalista Umberto Di Giovanangeli, da oltre vent’anni testimone privilegiato del conflitto israelo-palestinese – è il dialogo; nella specificità non si tratta della lotta del bene contro il male, del torto contro la ragione, ma dello scontro di due diritti, di due ragioni ugualmente fondate. La pace non può essere calata dall’alto, o imposta dall’esterno. Sono rilevanti i ruoli dell’Onu e di Barak Obama, ma è importante soprattutto il ruolo della cultura stessa, del riconoscimento dell’altro da sé, dell’identità dell’altro. Un crinale molto complesso che viene affrontato ora dal cinema, ma prima ancora dagli scrittori israeliani. Si tratta di un fatto doloroso, non solo di rinunciare ad un ‘pezzo di terra’, ma bisogna rifletterci su noi stessi per radicalizzare l’idea del dialogo. Israele è nata nel dolore, nella catastrofe di un altro popolo. Per tanto tempo la politica espressa da Golda Meir era ‘La Palestina è la terra di un popolo per un popolo senza terra’. La cinematografia israeliana sta tentando di far capire che il dialogo non è possibile se non si parte dalle fondamenta, se non si pensa alle origini. Non offre una visione consolatoria né accattivante di Israele, non gli serve una visione europea del problema. Israele non è più azkenazita, quella dell’élite culturale che mirava ai nostri valori (europei ndr.), ma nemmeno sefardita. Ha subito profonde modifiche demografiche e attraverso il cinema viene fuori in tutta la sua complessità. Non bisogna dimenticare che oggi il terzo partito di governo è formato da una comunità russa diventata importante; ricordare che una minoranza fortemente presente rappresenta l’altra faccia del fondamentalismo islamico; che dietro l’assassinio di Rabin non c’erano solo fanatici ma la roccaforte zelota di West Bank. Bisogna pensare inoltre che si tratta di un altro popolo, non solo di una terra espropriata. Una storia che la cultura nazionale comincia solo oggi a ripensare”.
“Tutte le osservazioni vanno discusse – ha dichiarato il regista Raphael Nadjari -, bisogna abbandonare la visione strettamente politica per un approccio diverso, non dimenticare i punti di vista altrui. Mettere in discussione e rielaborare, condividere il processo (di pace ndr.) non il risultato. Il cinema israeliano propone affermazioni molto forti, spesso contraddittorie, anche se non tutte sul conflitto, per tenere in vita tutte le posizioni. Tutte le voci vanno ascoltate, ognuno può esprimersi nel modo in cui desidera e confrontarsi con gli altri. Riuscire ad apprezzare qualcosa di diverso da noi, definire se stessi e la propria opera. Il cinema è forse il linguaggio più straordinario per poter finalmente dire certe cose, allontanandoci dalla visione politica del mondo, e scoprire la forza del dibattito civile. E sarà in costante evoluzione finché tutti avranno diritto alla parola”.
Naturalmente si è parlato anche di molto altro, della censura che – tutti concordano, italiani e israeliani – non esiste, così come i telegiornali sono più liberi e critici verso il governo dei nostri; della nuova espressione nella video arte che affronta il conflitto, anche criticamente verso la stessa Israele, da più punti di vista, e altri problemi non indifferenti come ‘consumismo’, religione, famiglia. Ogni argomento e ogni problema, attraverso mezzi di espressione e linguaggi diversi, dalla satira al grottesco, dal documentario alla metafora; della necessità di scoprire altri ‘generi’ e non solo il dramma (familiare) o film di guerra, come afferma Danny Lerner di cui proprio ieri abbiamo visto “Frozen Days”, un thriller il cui riferimento è Roman Polanski (da “Repulsion” in poi) ma che potrebbe essere una sorta di “donna che visse due volte” (di Alfred Hitchcock) nell’attuale Israele. O, se volete, un polar o un giallo che diventa metafora della schizofrenia della società israeliana, divisa tra voglia di pace e guerra perenne.
Infatti, è stato visto anche “Close to Home” di Dalia Hager & Vidi Bilu (2005) che narra la storia di due ragazze poco più che diciottenni, Smadar e Mirit, da caratteri completamente opposti che stanno prestando servizio militare con il compito di perlustrare le strade del centro di Gerusalemme e controllare i documenti dei (presunti) cittadini palestinesi.
“Le protagoniste – affermano le registe – prestano servizio militare operando controlli di polizia, perché una di noi ha realmente svolto quel tipo di attività. Attraverso quell’esperienza è stato possibile mostrare il nostro punto di vista sull’occupazione israeliana di questa città in conflitto”.
E per ciò vengono fuori contraddizioni e disagi, dubbi e speranze, come accade spesso ad ognuno di noi, che non siamo i governanti che ci rappresentano e ci ‘guidano’. Il film coinvolge proprio perché ci mostra due ragazze che vorrebbero vivere la loro vita come tutte le altre ma che devono essere severe e diffidenti verso gli altri, anche quando non ne hanno voglia.
Visto anche l’allucinatorio, primo, esempio di mix tra cinema e video-arte firmato Ran Slavin “The Insomniac City Cycles”. Un’opera, quindi, particolare ed alternativa, sperimentale e di ricerca che sorprende perché è una sorta di summa di tutte le arti, e di conseguenza di tutti i media. Un lungometraggio che fa della città (Tel Aviv soprattutto, ma anche di Shanghai e Changdu) non un oggetto qualsiasi, ma una protagonista assoluta che si allarga, si sdoppia, si muove, prende vita. Lo spunto, ovvero la storia è una sorta di giallo-enigma che ricorda lontanamente “Apri gli occhi” di Amenabar (poi “Vanilla Sky” nel rifacimento americano), perché lo spettatore scoprirà solo alla fine il chi e il perché dell’intera vicenda, che è comunque ‘traccia’ per un’espressione artistica visiva e sonora ‘nuova’, dove i dialoghi ci sono soltanto perché essenziali.
A Tel Aviv, un uomo soffre di insonnia e cerca di ricordare se davvero qualcuno gli abbia sparato in uno dei parcheggi sotterranei della città. Non riesce a capire più cosa sia vero e cosa sia un sogno, mentre la metropoli assume le sembianze della condizione umana.
Un (non) film d’autore a tutti gli effetti, anche perché il regista è un artista eclettico – musicista e videoartista, lavora tra cinema, musica digitale, acustica e pittura, ed ha partecipato alla Biennale Architettura di Venezia 2004 – che ipnotizza e trascina in un viaggio che travolge i nostri cinque sensi.
“E’ un’opera senza fine – spiega il regista, che infatti l’ha rimontato e ‘ricostruito’ più volte -, uno spazio aperto che accoglie lo spettatore e lo lascia libero di volare tra inquadrature, effetti visivi e suoni per costruire il proprio viaggio onirico. E’ un film di fantascienza noir sperimentale”.
Diversamente fa Maya Zack che lavora nel mondo della videoarte confondendo/mescolando il linguaggio cinematografico con altre forme di espressione. “Mother Economy” è infatti un’opera che segue le azioni di una casalinga all’interno di una casa durante il nazismo. La donna, in una sorta di trance, si muove, organizza, effettua calcoli, elabora. E il breve film riflette sulla condizione, sulle capacità e sulle numerose risorse dimostrate dalle donne anche durante un periodo così violento.
“Attraverso la protagonista – confessa l’autrice – ridefiniamo il tradizionale ruolo femminile della semplice casalinga: essa si trasforma in scienziato meticoloso e artista devoto del proprio territorio”.
Ancora un documentario di grande impatto e lucidità è “Check Point” di Yoav Shamir, girato nel corso di tre anni – tra il 2001 e il 2003 -, con il sostegno finanziario della stessa Israel Film Fund. Uno sguardo compassionevole e al tempo stesso imperturbabile sulla vita che si svolge nelle zone di confine che separano Israele dai territori palestinesi. I posti di blocco dove si controlla il passaggio di uomini, donne e bambini lungo alcune delle strade tra Israele, Gaza e la Cisgiordania. Fra tensione e sorrisi, fra tenerezza ed umorismo un cineverità che costringe ed aiuta a ‘vedere’ una drammatica realtà da vicino.
“Ho realizzato questo film per il mio popolo – dice il regista -, la mia famiglia e gli amici che rappresentano quella parte della società israeliana che ha scelto di non sapere cosa succede così vicino a noi”.
L’altra commedia è firmata dall’ebreo-georgiano Dover Kosashvili – di cui in Italia abbiamo visto e apprezzato “Matrimonio tardivo” -, “Dono dal cielo”. Una sorta di commedia all’italiana in salsa georgiana, visto che questi israeliani portano avanti quel mix esplosivo dei due popoli e delle due culture, esuberanti e appassionati, senz’altro tipicamente mediterranei.
Un gruppo di addetti ai bagagli, immigrati dalla Giorgia, progettano il furto dei diamanti ai danni della Shtrenchman Srl., una società che importa ogni settimana due sacchetti di pietre grezze a Tel Aviv per mezzo di una linea aerea sudafricana. Si devono però assicurare che nessuno noti la scomparsa dei diamanti dopo l’atterraggio dell’aereo. Ma la realizzazione del grosso colpo – un po’ ricorda “Operazione San Gennaro” di Dino Risi – si complica a causa degli intricati e numerosi legami sentimentali in cui i protagonisti di questa famiglia allargata sono coinvolti. In pratica sette storie una dentro l’altra che non possono provocare altro che equivoci e conflitti a non finire.
Particolarissimo e personalissimo è invece “The Confessions of Roee Rosen” che inizia con l’artista che annuncia la propria morte imminente e rinnega una carriera piena di bugie, scandali e false identità. Le confessioni sono trasmesse da tre portavoce – tre lavoratrici straniere che risiedono in Israele – che recitano tre monologhi in ebraico, una lingua che non conoscono. Le oratrici dunque ignorano il significato dei testi, una sorta di ibrido: basati sì sulla vita di Rosen ma al contempo parzialmente plausibili come dichiarazioni delle stesse lavoratrici immigrate.
“Year Zero - Anno zero” di Joseph Pitchhadze, è un’amara commedia in bilico fra problemi esistenziali e materiali. Le storie incrociate di Michal e Reuben, una coppia di quarantenni che non vuole avere figli, ma lei scopre di essere incinta; un cieco di mezza età che vive col suo amato cane Maxime; Anna che viene sfrattata col figlio di dieci anni e perde il lavoro nella stessa giornata; Kagan, un trentenne solitario e introverso, che sta registrando un programma sul padre, fondatore (in anticipo) del movimento punk in Israele; Matti, un venditore d’armi che sembra di offrire ad Anna la possibilità di evitare di prostituirsi…
Mentre, il duro e crudo “Or/Mon Tresor” (Or/Tesoro mio) di Keren Yedaya (2004), è un dramma di sconvolgente attualità - non solo israeliana -, doloroso e sconvolgente, inedito (per un pubblico occidentale) e disarmante anche per lo spettatore. Ruthie e Or, madre e figlia diciassettenne, vivono a Tel Aviv. Ruthie si prostituisce da vent’anni e la sua salute peggiora sempre di più. Or, che inutilmente ha provato a levare la madre dalla strada, è giovane, bella, ha degli amici e un ragazzo. La sua quotidianità è fatta di piccoli lavori: lavapiatti in un fastfood, pulizie delle scale, raccolta delle bottiglie; senza dimenticare la scuola. Ma dopo l’ennesima visita in ospedale a sua madre e ‘dell’intimidazione’ a lasciare il suo ragazzo, Or decide di cambiare vita ma…
Impossibile, infine, non segnalare “Description of a Memory” di Dan Geva (2006), una lucida riflessione attraverso i segnali/segni della storia e del proprio passato, con cui il regista non solo si confronta con “Description of a Struggle” di Chris Marker (1960), ma anche con la sua proprio storia e quella del paese.
“Il mio viaggio in Israsele – dice – non si limita all’aspetto visuale e simbolico del film-poema di Marker, si addentra anche nelle parti filmiche più nascoste, cercando disperatamente di decostruire e ricostruire i frammenti evanescenti del messaggio criptico, profetico e impegnativo che il regista francese ci ha lasciato”. E in questo viaggio – a tappe – siamo coinvolti anche noi spettatori e il nostro passato così vicino e così lontano.
José de Arcangelo
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