giovedì 31 marzo 2016

Un riuscito e travolgente film indipendente che parla della generazione dei 'sacrificabili', ovvero "WAX: We Are the X" di Lorenzo Corvino

Ben dodici esordi, fra cast e troupe, per un’altra opera prima indipendente e originale nel panorama italiano, e – come di consueto - già presentata in oltre quindici festival internazionali dove ha raccolto riconoscimenti e premi. E’ “WAX: We Are the X”, sceneggiato e diretto da Lorenzo Corvino e ora nei cinema grazie a Distribuzione Indipendente, appunto.
Un film che affronta temi e problemi attuali registrando le vicende di un trio di ragazzi dell’ex generazione X oggi più che mai senza una prospettiva di futuro esistenziale e professionale. Un’opera che miscela diversi generi cinematografici con intelligenza in un ‘on the road’ fra avventura e mistero, dramma e commedia, giallo e ménage à trois, e non ultimo ‘film nel film’, girato
sfruttando ottimamente tutti i mezzi (low budget e green impatto 0) che offrono le nuove tecnologie, dalla Red camera al telefonino, anche perché uno dei due ragazzi è il ‘fotografo’ della situazione, e quello che vediamo è spesso la sua soggettiva. Due giovani italiani (Jacopo Maria Bicocchi e Davide Paganini) e una ragazza francese (Gwendolyn Gourvenec) vengono inviati a Monte Carlo per le riprese di uno spot, e hanno una settimana per portare a termine il compito. Ma ben presto il viaggio si trasforma in una rocambolesca avventura attraverso il sud della Francia e la Costa Azzurra e fra i tre giovani si instaura ben
presto un’intensa relazione che diventa metafora del confronto fra trentenni europei, uniti da un’esistenza da ‘Sacrificabili’ e alla ricerca del riscatto per l’intera generazione. Si parte dalla fine, quando un eccentrico e misterioso signore (la special guest star Rutger Hauer) offre ad un giornalista (Andrea Sartoretti) una ‘chiavetta’ col video girato, appunto, dai ragazzi di cui si sono perse le tracce e... “Racconta soprattutto uno stato d’animo – esordisce Corvino alla presentazione romana – e abbiamo girato con due telecamere, un po’ alla maniera del Dogma cercando di rimanere ‘puri’ e di trovare la forma, lo stile e anche il linguaggio giusti del racconto.
Quando ancora si girava su pellicola non si poteva fare campo-controcampo allo stesso tempo senza spezzare il ritmo, mentre ora si può fare facendo addirittura il montaggio in diretta”. “Come ‘regista in campo’ – ribatte Jacopo Maria Bicocchi alias Dario -, dovevo tener d’occhio il monitor, distrarmi su me stesso, cercare di rubare e perciò ho lavorato con Corrado (Serri, fotografo con Caterina Colombo ndr.) che mi suggeriva la dialettica”. “Nei primi giorni di ripresa non è stato facile – confessa Davide Paganini – perché paradossalmente stavolta dovevo guardare l’obiettivo e talvolta mi sembrava di star guardando me stesso”.
“Da noi si dice ‘parliamo piano altrimenti svegliamo gli italiani’ – afferma Gwendolyn Gourvenec – tanto che un film come questo non me l’aspettavo. Anche perché i film indipendenti che escono in Francia non sono la maggioranza. La situazione in Italia è difficile perché il film esce se funziona, ma chi lo decide è spesso il distributore. Per quello che riguarda me, non volevano nomi noti ma ‘tre ragazzi’ e tra noi c’è nata subito la giusta alchimia”. Prodotto da Antonio Corvino col regista e Giuseppe Manzi per Vengeance (che sta più per riscatto, dignità, rivalsa) in collaborazione con Rai Cinema, in associazione con Banca Popolare Pugliese, Filacapital, Barbetta (ai sensi delle norme sul Tax Credit), con il sostegno della Regione Lazio - Fondo Regionale per il cinema e l’audivisivo e con il patrocinio dell’Apulia Film
Commission, il lungometraggio si presenta col motto “se siete nati dopo il 1970 e la Società non si è ancora accorta di Voi questo film è la vostra vendetta!” “E’ un’opera prima italiana – scrive Lorenzo Corvino nelle note – in cui a esordire non è stato solo il regista ma anche il produttore, il direttore della fotografia, lo scenografo, il musicista, il casting director e altre professionalità. Sebbene di un esordio si tratti, la factory che ha lavorato al progetto, dopo aver reperito sponsor nazionali e internazionali e finanziatori attraverso il tax credit, non ha rinunciato ad affrontare numerose sfide, come riuscire a girare in quattro nazioni diverse, a
30.000 piedi di altezza su un aereo di linea nel cuore dell’Atlantico, in mezzo al deserto, su un treno francese del 1892 nel cuore della Provenza e persino sulla terrazza dell’Hotel Fairmont di Monte Carlo”. Quindi, sfruttando al massimo le possibilità e le occasioni, Corvino – che ha avuto come riferimenti “Y tu mamà también” di Alfonso Cuaròn e “The Dreamers” di Bernardo Bertolucci - e C. hanno raggiunto un pregevole e godibile risultato offrendo allo spettatore uno spettacolo a tratti adrenalinico a tratti romantico che coinvolge e diverte, con un ‘vero’ finale a sorpresa. Una sorta di inno all’amicizia e alla solidarietà generazionale.
“Affrontiamo un tema generazionale – dichiara il regista -, un po’ per liberarci dall’eredità manzoniana perché lui doveva rivolgersi al passato per parlare del presente di due secoli fa, noi riusciamo a parlare di noi stessi, troviamo il coraggio di parlare del presente come il cinema degli anni Sessanta, a raccontare noi stessi oggi. Una storia universale che è stata capita in tutto il mondo, ma con sfumature italiane e europee.” “La classe media si è costruita col lavoro – aggiunge -, ma se non lavoriamo questa non c’è più, oggi viviamo al di sopra delle nostre possibilità, in una situazione di precarietà intellettuale. In Italia per poter parlare dell’indigenza ci si rivolge all’Ilva, alla mafia, alla mondezza. Ma il malessere si annida quando hai la bellezza dell’adolescenza, oggi c’è quello che definirei un fronte di guerra, ce l’abbiamo con chi ci è stato prima”.
“Il film parla in modo provocatorio di tre giovani che ‘muoiono’ per il lavoro – conclude l’autore -, ma come si può morire di lavoro? E non c’è nulla di peggio che morire per qualcosa che ha il compito di darti la sopravvivenza, è un paradosso o peggio un ossimoro. E peggio che morire per il lavoro c’è il morire giovani per il lavoro. Ma non è un film di denuncia, è un film che vuole raccontare una storia persuasiva in un contesto che fa rifletter, senza rinunciare alla leggerezza, al gusto della sorpresa, alla spettacolarità, alla giostra dei sentimenti. La patinatura e la bellezza attorno ai protagonisti, fanno da contrappunto al disagio che vivono, il benessere che li circonda o con cui entrano in contatto per una settimana non li appartiene, anzi più loro ne entrano in contatto, più lo iato, il gap, la delusione si faranno cocenti. Perché la loro delusione sia ben amplificata occorre
lasciarli dentro a quelle amenità edonistiche ed esterne. Se vogliamo che lo spettatore colga veramente sia forte per i protagonisti la delusione dell’inganno subito, occorre immergerli per una settimana nel sogno a portata di mano per poi sottrarglielo al culmine del loro piccolo traguardo raggiunto”. E, come dice il personaggio di Hauer nel film, “Tutto questo riguarda la loro generazione e il loro futuro distrutto”. Nel cast anche Lily Bloom, Claudia Gallo, Muriel Gandois, Mathieu Intikalau, Francesca Ritrovato e con la partecipazione speciale (guest star) del francese Jean-Marc Bar e dell’italiano Andrea Renzi (l’inaffidabile produttore). José de Arcangelo
(3 stelle su 5) Nelle sale dal 31 marzo distribuito da Distribuzione Indipendente in oltre 22 copie (e in crescendo)

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