mercoledì 2 novembre 2016

Dal romanzo di Matteo Righetto, il film "La pelle dell'orso" di Marco Segato, in raro equilibrio fra documentario e finzione, avventura e dramma

Tratto dal romanzo Matteo Righetto “La pelle dell’orso” (Ugo Guanda Editore), il film omonimo di Marco Segato è un riuscito dramma avventuroso in raro equilibrio fra documentario e finzione.
Infatti, il regista esordisce nella fiction dopo quasi dieci anni di gavetta nel cinema dal vero, con un’opera inconsueta nel panorama cinematografico italiano. Una ‘pellicola’ che attraverso la storia “del piccolo uomo che affronta la grande bestia, racconta il superamento di quella linea d’ombra che segna l’uscita dell’uomo dall’età dell’innocenza per entrare in quella delle grande sfide contro i mostri della natura e dello spirito”.
Dunque, tra dramma e avventura, una storia di crescita (adattata e sceneggiata dal regista con Enzo Monteleone e il protagonista Marco Paolini), sul rapporto tra un padre, un figlio e la natura, madre e matrigna al tempo stesso. E’ la vicenda, anticipata negli anni Cinquanta (nel libro sono i Sessanta), e ambientata in un villaggio nel cuore delle Dolomiti, dove vivono lo sveglio e introverso adolescente Domenico (efficace l’esordiente Leonardo Mason) e il padre Pietro, un rude
montanaro consumato dalla solitudine e dal vino, che per campare lavora alle dipendenze di Crepaz (Paolo Pierobon). Il rapporto tra padre e figlio è, dunque, aspro e difficile, e i lunghi silenzi li hanno trasformati in due estranei. Ma una notte la tranquillità della valle viene minacciata dal ‘daol’, il diavolo secondo la leggenda, un orso vecchio e feroce che uccide una vacca dentro una stalla. La
comunità è in preda a un terrore superstizioso e non ha nemmeno la forza di reagire. Una sera all’osteria, Pietro in uno scatto d’orgoglio, fa una scommessa al potente Crepaz: ammazzerà l’orso in cambio di soldi e porterà come prova la pelle. La sfida viene raccolta tra le risate e lo scetticismo generale, però per Pietro è l’occasione che aspettava da anni. Domenico lo scopre e decide di seguirlo contro il parere del genitore. I due finiranno per ricostruire il loro rapporto e a recuperare l’affetto reciproco.
“Mentre leggevo il libro di Matteo Righetto – dice l’autore -, ho subito pensato di aver trovato il soggetto ideale per raccontare la ‘mia storia’, quella di un viaggio al contempo fisico e spirituale, un’esperienza iniziatica per il giovane protagonista che lo spinge a riavvicinarsi al padre dopo anni di silenzi amplificati dall’assenza della madre e dalla vita dura di montagna.
Rispetto al libro volevo disegnare un mondo più duro e complesso, e trovare un equilibrio tra il racconto di genere, le suggestioni fantastiche e l’intimità di un rapporto difficile tra padre e figlio. Inoltre, volevo dare, attraverso il padre e l’orso, l’idea di un mondo che sta per finire, di un futuro incerto per una natura selvatica e un uomo non socievole, prima dell’Italia del boom”. “Viviamo in un mondo liquido – ribatte Paolini proprio nel ruolo di Pietro -, dove un padre è il duplex della madre, questo non è un padre modello né educativo né affettuoso, non ci si può attaccare ad un modello così, sarebbe come attaccarsi ad un sasso, ma a volte qualcuno si affeziona
a un modello che non vuol essere tale, un uomo che sembra solido, dato che in un mondo liquido ti attacchi dove trovi un appiglio”. “L’idea del genere partiva prima del film – riprende Segato -, ma non basso genere, l’intrattenimento senza rinunciare alla qualità, dalla passione western ad un paesaggio anomalo, e l’idea universale del rapporto padre-figlio, perché non volevo ancora affrontare la situazione attuale di crisi e incertezza”.
“La storia mi piaceva – dichiara Lucia Mascino nel ruolo di Sara, unica donna in primo piano -, un papà e un figlio e la montagna; lavorare con Paolini che a teatro è stato mio insegnante, l’idea del western, e tentare di assomigliare a Clint Eastwood. Un ambiente misterioso e crudo che mi richiamava e dove mi sentivo a casa con un personaggio che è una sorta di enzima nel processo di riavvicinamento tra padre e figlio, che serve a riscaldare quel gelo, tra durezza e solitudine, di un ambiente non rassicurante. Un ruolo in cui non sono per forza una madre o una sorella, bello e spavaldo”.
I riferimenti di Segato vanno da Mark Twain a Ernest Hemingway e Jack London. “A questi riferimenti si sovrappone l’epos antispettacolare dei racconti e dei romanzi di Mario Rigoni Stern – spiega -, una lezione importante soprattutto per la descrizione dei boschi, delle montagne e delle vite degli uomini che li abitano. Uno stile che si sofferma sulla contemplazione della natura, sui piccoli gesti, sui momenti sospesi, attento alle vite degli uomini semplici e alla loro relazione con il mondo contadino”.
“Io conosco i cacciatori, uno era proprio Mario Rigoni Stern – spiega Paolini -, lui mi diceva che a caccia si va con pochi colpi, tre per la precisione, perciò ho insistito perché anche nel film fossero pochi; non è una gara sportiva, non hai la possibilità di avere più tempo, e se non lo usi sei morto. Prima della guerra, anche Pietro era un cacciatore, allora lui era un uomo diverso. La guerra lo ha portato fuori, lo ha cambiato, e lui è tornato a casa fuori tempo massimo. E quando torna, in quel mondo in cui non si accolgono sguardi da fuori, per gli altri è uno molto cattivo e poco furbo.”
Quindi, anche un film di genere, ma nel senso più alto del termine, asciutto ed essenziale – come i dialoghi -, esaltato dalla fotografia di Daria D’Antonio e dalle musiche mai ingombranti di Andrea Felli. Gli altri interpreti: Maria Paiato (signora Dal Mas), Mirko Artuso (Franco), Valerio Mazzucato (Bruno), Massimo Totola (Toni Dal Mas) e Silvio Comis (Santin). José de Arcangelo
(3 stelle su 5) Nelle sale italiane dal 3 novembre distribuito da Parthénos

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