giovedì 19 gennaio 2017

"Nebbia in agosto" del tedesco Kai Wessel racconta una storia vera - tanto disturbante quanto vergognosa - del nazismo, volutamente cancellata per decenni e da non dimenticare

Presentato e premiato al Giffoni Film Festival con il CGS Award, approda nelle sale in occasione della Giornata della memoria, un’altra storia vera, tanto disturbante quanto vergognosa, del nazismo rimasta sepolta per decenni, disumano antecedente della shoah. Uno dei tanti episodi tragici venuto alla luce nel 2008 grazie al romanzo di Robert Domes, ispirato alle ricerche del professor von Cranach,“Nebbia in agosto” (Nebel im August), ora diventato film omonimo del tedesco Kai Wessel (Miglior regista al Bavarian Film Award), sceneggiato da Holger Karsten Schmidt.
Primi anni Quaranta nel sud della Germania: Ernst (la rivelazione Ivo Pietzcker), tredicenne tedesco jenisch (rom) orfano di madre, intelligente ma disadattato, viene giudicato ‘ineducabile’ da case famiglie e istituti, e finisce confinato in un’unità psichiatrica a causa della sua natura ribelle. Tra amicizie e inemicizie scoprirà man mano che alcuni pazienti – soprattutto bambini handicappati o malati incurabili – vengono uccisi sotto la supervisione del dottor Walter Veithausen (Sebastian Koch, da “La vita degli altri” a “In nome di mia figlia”) che prima sembrava gentile e comprensivo.
Il ragazzino decide allora di opporre resistenza aiutando gli altri pazienti con ogni mezzo, mentre progetta la fuga insieme all’amata Nandl (Jule Hermann), che corre grave pericolo perché epilettica. Ma a quel punto anche Ernst, nonostante sia completamente sano, rischia la vita perché ora è la dirigenza stessa della clinica a decidere sulla vita dei bambini – non più Berlino - e lui si è troppo esposto. Un dramma illuminante e toccante al punto giusto, senza retorica né falso moralismo, che disegna ottimamente il ritratto psicologico dei protagonisti, tutti credibili, divisi tra etica e passione, vita e morte; un’ambiguità che solo alcuni metteranno in dubbio seppur a caro prezzo, come suor Sophia (perfetta Henriette Confurius), altri invece resteranno rassegnati testimoni rendendosi complice dell’orribile sterminio di massa degli innocenti.
Infatti, oltre 200mila persone (tra cui 5mila bambini) furono uccise nelle cliniche psichiatriche tedesche tra il 1939 e il 1944, come risultato del programma di eutanasia (non come l’intendiamo oggi, ma si trattava di veri e propri omicidi di massa): un capitolo della storia tedesca che per molto tempo è stato cancellato dalla cultura commemorativa. Il Professor Michael von Cranach, direttore della Clinica Psichiatrica Kaufbeuren (dove è ambientato il film, e oggi in parte museo della memoria) dal 1980 al 2006, ha contribuito a gettare luce sui crimini della cosiddetta ‘eutanasia’, ha fornito assistenza alla produzione in veste di consulente.
L’allora vero direttore della Kaufbeuren (nel film sono stati cambiati i nomi, tranne al giovane protagonista), il dottor Valentin Falthauser, è stato anche ‘l’inventore’ della dieta della fame, a base di tre razioni giornaliere di un brodo di verdure stracotto, quindi senza sostanze nutritive né vitamine, destinato soprattutto agli adulti e usato successivamente nei lager. Nel dopoguerra ha avuto una condanna irrisoria, così come altri suoi ‘collaboratori’, tra cui l’infermiera ‘angelo della morte’ che dopo qualche anno di carcere è tornata a fare addirittura la puericultrice. Una storia terribilmente inquietante, soprattutto perché vera e raccontata con disarmante realismo e fluidità.
Peccato che nel finale, Weiss si prenda, forse, troppe licenze poetiche, oltre all’unico personaggio inventato (Nandl, la ragazzina), rischiando che lo spettatore meno attento concluda ‘è solo un film’, mentre questa vicenda deve indurre a riflettere su episodi storici che non debbono assolutamente ripetersi, anche se purtroppo la realtà quotidiana ci smentisce: sono ancora i bambini a pagare il prezzo più alto di guerre e persecuzioni. Ma la speranza risiede proprio nella figura di questo ragazzino indomito che lotta per la sopravvivenza dei suoi simili in un mondo ingiusto e indifferente. José de Arcangelo
(4 stelle su 5) Nelle sale italiane dal 19 gennaio distribuito da Good Films CENNI STORICI Le prime vittime dell’eutanasia nazista furono i bambini. A partire dall’agosto 1939, le levatrici, le ostetriche e tutti coloro che lavoravano nei reparti di maternità ebbero l’obbligo di denunciare ogni disabilità riscontrata. Gli ospedali psichiatrici iniziarono a creare dei reparti speciali per bambini, nei quali 5000 bambini e ragazzi trovarono la morte, prima della fine della guerra. Nell’ottobre 1939, Hitler scrisse un decreto formato da una sola frase, retrodatando il documento al 1° settembre 1939, giorno in cui aveva avuto inizio la guerra. Quel decreto diede il via all’atto denominato ‘T4’, che prendeva nome dall’indirizzo di una villa situata al numero 4 di Tiergartenstrasse, a Berlino. Il documento includeva i criteri di selezione in base ai quali chiunque non fosse stato in grado di contribuire al benessere della ‘comunità nazionale’ sarebbe stato ucciso con la pratica dell’eutanasia. Il criterio più importante, in genere, era la capacità o meno del paziente di lavorare: la possibilità di sopravvivere era maggiore per chi era in grado di produrre un beneficio economico.
All’epoca furono create quattro organizzazioni con nomi di copertura per applicare queste pratiche ai pazienti. Tra di esse l’Associazione per il Lavoro dell’Ospedale Psichiatrico del Reich e l’Associazione delle Ambulanze Pubbliche. I dirigenti degli ospedali psichiatrici dovevano compilare dei resoconti per ciascun paziente, nei quali descrivevano le diagnosi, le attività dei pazienti e altri dati. Poi inviavano questi resoconti a Berlino, dove altri psichiatri esperti inserivano dei simboli: il segno meno di colore blu indicava ‘vita’, il segno più di colore rosso significava ‘morte’.
Il ‘Gemeinnutzige Krankentransportgesellschaft’ trasportava i pazienti fino a uno dei sei ‘ospedali della morte’ per mezzo di autobus o treni, dove immediatamente dopo il loro arrivo, venivano uccisi nella camere a gas. Si stima che oltre 70mila persone furono uccise con questa pratica. Questa metodologia gettò le basi per il successivo sterminio degli ebrei europei, sia dal punto di vista tecnico che organizzativo. In molte parti della Germania i pazienti psichiatrici ebrei furono uccisi per primi. Dal 1941 in poi, i prigionieri dei campi di concentramento che erano incapaci di lavorare furono anch’essi uccisi negli ospedali della morte, inclusi addirittura gli stessi soldati tedeschi rimasti mutilati sul fronte. Nell’agosto del 1941, Hitler pose fine al ‘T4’ ma la notizia di questi omicidi era trapelata, creando proteste tra la gente.
Ma la fine del programma non significò la fine della cosiddetta eutanasia. Da quel momento in poi furono gli stessi medici, gli assistenti sociali e le suore a sopprimere i pazienti direttamente nelle unità, tramite avvelenamento e, dal 1943 in poi, con cibo non nutriente. I pazienti morivano di fame o di tubercolosi a causa delle loro pessime condizioni di salute e i dottori utilizzavano i loro organi per scopi di ricerca. In alcune strutture i medici eseguivano esperimenti anche su pazienti in vita e/o addirittura sani. Con l’aumento delle vittime di guerra, e la succesiva crescente difficoltà delle autorità sanitarie naziste nel trovare letti liberi per i malati e i feriti, nelle aree pesantemente colpite dai bombardamenti
furono sgomberati gli ospedali psichiatrici e i pazienti furono trasferiti in altre unità. Molti di loro furono uccisi. Oltre alle 200mila vittime delle strutture psichiatriche tedesche, almeno altri 100mila pazienti morirono in diverse aree occupate dell’Europa. Questi omicidi sono stati effetto di una conseguenza radicale della visione della società Nazional Socialista: il valore economico, la razza e l’eredità genetica di una persona erano basilari nel calcolare i diritti di un individuo e nella valutazione del rapporto costo-beneficio.
Le azioni dei medici, gli esecutori principali di questi crimini, erano motivate, tra le altre ragioni, dall’ambizione terapeutica e molti psichiatri volevano dedicarsi a guarire che, secondo le loro diagnosi, era potenzialmente curabile. Chi veniva invece bollato come ‘incurabile’ era colpevole di ridurre le risorse a disposizione e di pesare sulle finanze dello Stato, e pertanto costituiva un impedimento alle possibilità terapeutiche dei medici stessi, soprattutto in tempi in cui le risorse disponibili per gli ospedali psichiatrici erano sempre più scarse.
Nei processi del dopo guerra molti medici e organizzatori di questi omicidi di massa furono dichiarati non colpevoli, e ottennero pene leggere. Per molto tempo, gli scrittori che nei loro libri facevano riferimento al programma dell’eutanasia nazista rimasero inascoltati, e a volte non riuscirono neanche a trovare un editore che li pubblicasse. Solo alla fine degli anni ’70 s’iniziò a parlare a livello accademico di questi eventi e l’impulso venne da una nuova generazione di psichiatri che studiarono la storia delle loro strutture. Nel 2014, è stato inaugurato a Berlino un luogo dedicato alle vittime del programma di eutanasia nazista.

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