mercoledì 22 febbraio 2012

Sul grande schermo siamo ancora tutti "Sfiorati" da cose immense, terribili, meravigliose

Dal romanzo omonimo di Sandro Veronesi "Gli sfiorati", l'opera seconda di Matteo Rovere (“Un gioco da ragazze”) con protagonista un trio di giovani attori in ascesa come Andrea Bosca, Miriam Giovanelli e Michele Riondino, assecondati da Claudio Santamaria, Asia Argento, Massimo Popolizio e la spagnola Aitana Sanchez Gijon che, dopo Almodovar, è spesso sui set italiani. Nei cinema dal 2 marzo in circa 80 copie, prodotto (con Rai Cinema e costato 3milioni di euro) e distribuito da Fandango.
Un padre in comune: è questa l’unica cosa che unisce Méte e Belinda. Lui giovane grafologo, innamorato del carattere di ogni essere umano nascosto dietro la scrittra. Lei adolescente inafferrabile, in bilico tra consapevolezza e scoperta di sé. Non si sono praticamente
mai visti, ma adesso sono costretti a passare sotto lo stesso tetto la settimana che precede il matrimonio dei genitori…
"Volevamo rispettare lo spirito del libro - esordisce Rovere -, la contaminazione tra generi, rileggere una storia densa e importante, sull'impossibilità di poter amare e sull’ossessione dell'oggetto del desiderio. Un romanzo di vent'anni fa su un incontro ai confini della leggerezza. E di essere quasi 'sfiorati' anche nello stile".
"All’inizio la scelta di fare 'Gli sfiorati' mi sembrava strana - dice lo scrittore-sceneggiatore Francesco Piccolo -, perché è un romanzo che rappresenta un po' gli anni '80, perciò abbiamo deciso di rapportarlo all’oggi, capire se può esistere ancora quel tipo di giovinezza e, forse, andare più a fondo nella realtà attuale. Io e Laura avevamo sceneggiato anche 'Caos calmo' ma lì eravamo più attaccati al libro. Qui invece abbiamo adoperato la scrittura circolare che nel romanzo non c'è, perché abbiamo pensato si prestasse".
"Io lo metterei tra i film non difficili - ribatte il produttore Domenico Procacci -, forse è stato uno dei primissimi progetti, quando Laura Paolucci (produttore delegato e co-sceneggiatrice ndr.) mi ha proposto il romanzo, da allora sono passati moltissimi anni. Ma ad un certo punto ha cominciato a prender corpo, era il momento giusto per raccontare una generazione non necessariamente leggera. Il libro esiste e abbiamo lavorato su questo, e pensato di affidarlo a Matteo, perché lo raccontasse un po' da fratello maggiore anziché da padre. Avere un regista che la descrive da vicino. Comunque ci sono tante differenze col romanzo che è molto anni '80”.
"La scelta di ogni attore è una storia a sé - ribatte il regista. La presenza di personaggi principali e non, si apriva a diversi caratteri e personalità. Con Asia (nel ruolo della PR Beatrice ndr.) abbiamo fatto un'attenta lettura e lei, con approccio molto ironico, ha deciso di raccontare l'insicurezza della categoria, rappresentativa di un gruppo. Credo che in questo mondo a tutto tondo, fra genitori e ragazzi, ci fosse una racconto divertente della realtà".
"Abbiamo fatto un enorme lavoro prima - afferma la Argento -, Matteo è talmente esigente da farmi sentire incapace: arrivava e diceva 'così non va bene', ed io 'come la vuoi, cosa devo fare? Lui voleva una parlantina, io ho una voce grave; lui la voleva più alta, acuta. Ne conosco un po' di PR romane, qui sembra di essere ancora nell'antica Roma, c'è il salone con gente che mangia e beve. A Milano, invece, non hanno tempo da perdere, vanno alle mostre, ai concerti, non si fermano a raccontare di sé come fa Beatrice. Questo la farà amare, ma gli uomini scappano da lei. E questo ragazzino è piuttosto cattivello con lei. E’ un sorta di condizione umana plausibile, ma lei alla fine avrà la sua rivincita".
"C'è qualcosa di nostro qua e là - spiega Andrea Bosca che è Méte, il protagonista -; la sfida è un posto dove tutti vorrebbero andare ma nessuno ci riesce. Il romanzo spiega tutto, cosa vedo, cosa c'è nella testa del mio personaggio, di questo sconosciuto. Però Matteo ci dava delle direttive che mettevano ordine in questo caos. C'era una difficoltà emotiva estrema nel ritrovare la leggerezza, ma alla fine abbiamo riso di questo ragazzo a volte restio, a volte vigliacco, passando attraverso tutte queste difficoltà. Ed il suo non è un vero happy ending".

"Il mio personaggio è soprattutto presente nel terzetto - dichiara Santamaria che è il terzo, infatti, meno giovane tra i protagonisti, il grafologo -, nelle scene con loro due, ci siamo divertiti a costruire il personaggio, anche in scarpe bruttissime e con la pancia. Bruno ha un modo di essere molto diverso dal mio, ma ci ho lavorato finché non ho trovato il centro del personaggio, che vive situazioni da cui non può sfuggire (la moglie infedele lo ha lasciato, una figlia che vede poco, non ha una casa, non ha una lira). Trova evasione attraverso il lavoro, inventa questa teoria degli 'sfiorati', questa specie di lavagna pericolosa (dove incolla i manoscritti ndr.), elementi di una nuova categoria non incasellabile in una tipologia che non ha precedenti, una personalità mutuabile, che cambia dopo aver scritto una parola. Il suo è quasi un rapporto da fratello maggiore, paterna".
"Il mio, forse, è il più sfiorato di tutti - sostiene Miriam Giovanelli, spagnola anche lei, che è Belinda -, ho fatto soltanto un film in Italia, ma mi sono dovuta trasferire. Per la prima volta mi sono sentita attrice perché il regista mi ha diretta. Tutta la mia ‘sfioratezza’ ha a che vedere con Matteo, è stato un viaggio pazzesco nel film e nella vita. Stupendo".
"Divertirsi anche sul loro incontro - dice Rovere -, c'è già sul libro, anche se modelli e temi sono complessi. Sono partito da 'Un mondo senza pietà' di Eric Rochant (film francese dell’89 ndr.). Il mio cinema’scolastico’ è quello degli anni '90; quello universitario va più indietro. Il personaggio femminile è un po' come 'La collezionista' di Rohmer, ma sono stati tanti gli autori che hanno fatto delle commedie di contenuto - senza scomodare Billy Wilder, e dimenticando l'impianto televisivo di quelle odierne - il mio modello è, forse, il francese Jacques Audiard, che affronta la realtà con leggerezza. E con gli occhi del realismo volevo tentare di raccontare una storia più universale, fondere il mondo visivo contemporaneo e storie come queste. Quel tipo di regia su questo tipo di storia".
"Conoscevamo il romanzo da molti anni - confessa la sceneggiatrice Paolucci -, l’abbiamo ripreso ristudiandolo più sulla esistenza che sull'incesto, perché, volendo, lo potevamo fare sulle famiglie allargate. Nel libro, dove c’è molta religione, tutto tende a desiderare questa scena, viene elaborato su questo pensiero, tanto che quando ci arrivi (l’incesto ndr.) hai una soddisfazione. E con leggerezza, volevamo che negli spettatori fossero messe in dubbio delle certezze; che Belinda non uscisse mai di casa (nel libro esce spesso e ha persino un fidanzato) e cerca in tutti i modi di resistere".
"Pensavo che questo mondo fosse vicino a Rochant - chiosa Procacci – tanto che, allora, gli ho mandato una copia. Il libro gli è piaciuto molto, ma considerava Roma un elemento fondamentale del romanzo, e lui non la conosceva abbastanza, da poterla raccontare da dentro. Sia Belinda che Méte nel libro sono italiani, non volevo una coproduzione, ma andare in questa direzione per allontanarli di più: lei è cresciuta in un altro paese, in una cultura diversa (nel romanzo no). Credo sia molto ben diretto perché è un film di scrittura per un lavoro di scrittura cinematografica. Francesco Piccolo è uno scrittore ed è raro che un autore lavori sul romanzo di un altro. Di solito la messa in scena tende a normalizzarlo, invece in questo caso c'è un lavoro di reinvenzione, di riscrittura, rispettando lo spirito del libro. Un metodo che aiuta tutti".
"Il discorso di Roma è centrale - spiega l'autore -, Veronesi dice: 'Visti dalla strada i profili dei palazzi del centro di Roma non sono mai dritti'. Roma e l'unica che potesse contenerla è quella del centro storico, la stratificazione delle edificazioni, i palazzi abitati da individui impossibilitati di possederli, un loro luogo da non possedere. Riondino/Damiano ubica gli individui in case non loro, appartenute a tante persone prima di noi. Nel libro c'è lo sguardo di chi non è cresciuto a Roma, per me che vi sono cresciuto è un forte richiamo
poter ricostruire quelle atmosfere ".
“L’idea della palla e del rientro nel film – dice Rovere sul fatto che il film si conclude in modo ellittico - è di Laura e Piccolo, per ricominciare esattamente da questo punto di partenza”.
“Nel libro la palla c’è quando Méte scende dal taxi e la rilancia, niente più – afferma Piccolo -. Noi volevamo un elemento in sospeso, e ci sembrava di averlo inventato. Cercare quel calcio al pallone da un'altra parte, dal punto di vista del padrone che lo riceve. Méte accetta quello che è successo, se ne libera, accetta tutto e canta persino Ramazzotti. Io sono un fan di Eros, ma questo non c'entra. Cercavamo una possibilità in cui le conseguenze fossero sopportabili: sotto un diluvio universale (si scatena un temporale estivo ndr.), una canzone liberatoria che fosse un po' grezza, liberatoria per tutti, anche per il padre, il super sfiorato rozzo. Dopo aver cercato per un sacco di tempo, ha vinto Eros e dopo due secondi la cantavamo tutti e tre (sceneggiatori e regista ndr.)”.
“Non credo l’avrebbe cantato all’inizio del film – ribatte Bosco -, perché Méte non ha soltanto una spinta sessuale, ma la sua è una grande storia amore, inaccettabile. Poi, invece, può risalire in macchina col padre, e cantare”.
“Nel libro è un onestissimo venditore di cappelli, ma un po' rozzo, tatuato... – conclude il regista sul padre, diventato qui ex giocatore ed ex dirigente di calcio -. Un personaggio struggente, quando lo vediamo in tivù ed espone la sua teoria. Era divertente sintetizzarlo, che fosse riconoscibile, senza pregiudizi. Noi viviamo in una società complicata per tutte le generazioni, c'è un difendersi, una sorta di battaglia. Gli ‘sfiorati’ mi inteneriscono, li voglio bene, sono persone che combattono per la loro felicità, cercano di trovare gli strumenti giusti, si fanno travolgere dagli eventi, a volte vivono bene a volte male. Credo sia un tenero strumento di difesa dai 17 ai 60 anni, in un mondo che non li da niente. E’ difficile autodefinire il proprio stile. Anche un linguaggio televisivo è figlio di determinati tempi, il cinema è un po' più libero e comodo da raccontare. Io ho la volontà di portare lo spettatore all'interno della vicenda e farlo sentire libero. Bisogna riscoprire il linguaggio cinematografico perché credo il cinema subisca un po' l'assenza del mezzo, travolto dalla ‘pillolabilità’ del serial, della fiction. Così come la tivù offre una singola risposta, credo tocchi al cinema provare a dare più risposte a un’unica domanda”.
“Gli anni Ottanta erano più liquidi, la giovinezza più fluida, oggi si mangia liquido (soldi) – aggiunge la Argento -, molte porte si sono chiuse, non ci sono spazi mentali dove sognare; sono tempi molti diversi. Non c'è un paragone plausibile”.

“Siamo allegri e schizofrenici – confessa Bosco. Adesso debutto in teatro ad Asti con una mia regia, “Una questione privata” di Fenoglio; poi esce il film di Ferzan Ozpetek (16 marzo). Sono felicissimo”.
“E’ anche un ritratto generazionale – aggiunge Santamaria sul film -, non hanno un punto fermo, ma una costante mutevolezza, e non ricevono delle certezze, come negli anni '80. In quanto a impegni di lavoro, sono a teatro (all’Olimpico di Roma) con Filippo Nigro (dal 15 al 25 marzo). Anch’io nel film di Ozpetek e in “Diaz” che uscirà il 13 aprile”.
“Ho un nuovo film in programma ma finché non finisco non parlo – chiude la Giovanelli -, e deve ancora uscire “Dracula” di Dario Argento con Asia”.
José de Arcangelo

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