giovedì 1 novembre 2012

"Oltre le colline", in un monastero sospeso nel tempo, un tragico dramma di amore e fede

Il terzo film del romeno Cristian Mungiu, ispirato a una storia vera e tratto dai romanzi di Tatiana Niculescu Bran, è un dramma sull’amore e sul sacrificio, sulla fede e sulla libertà di coscienza, sulla religione e sull’abnegazione. Ma anche e
soprattutto sulle loro degenerazioni, quindi in fondo sul bene e sul male, tra ambiguità e/o confusione. Infatti, il regista dice “su come l’amore può trasformare concetti di bene e male in concetti molto relativi”. Miglior sceneggiatura, dello stesso Mungiu, e Miglior attrice, ex aequo ad entrambe le protagoniste Cosmina Stratan e Cristina Flutur, al Festival di Cannes, “Oltre le colline” narra la vicenda di due giovani ‘vittime’ dell’amore e dell’intolleranza. Alina torna dalla Germania, dove è andata a lavorare, per riportare con sé Voichita, l’unica persona che ama e da cui è stata amata in questo mondo, fin dall’orfanotrofio. Ma Voichita è entrata in convento, ha trovato Dio, e Dio è l’amante di cui è più difficile essere gelosi.
Se in questo caso ci troviamo davanti alle regole della chiesa ortodossa, l’opera di Mingiu indaga sul quanto i credenti – religiosi e non – rispettino abitudini e regole cristiane, ma quanto poco seguano nella pratica la vera essenza e il culto della Cristianità nella loro vita di tutti i giorni. Su quanta ‘teoria’ venga spesso tradita dalla ‘pratica’. E, in questo modo e in ogni fede, si finisce per fare del male predicando il bene. In particolar modo sulle donne che in ogni religione vengono sottomesse (e represse) non da Dio, ma ancora una volta dagli uomini. Infatti, Cristina che non si rassegna a lasciare l’amica in clausura - tra disperazione e depressione -, viene sottoposta ad un esorcismo e morirà proprio in questo luogo isolato dal mondo (‘oltre le colline’ appunto) ma, forse, avrà raggiunto il suo scopo. Voichita alla fine riuscirà a staccarsi completamente, se non dalla fede, dalla prigionia della religione.
“Nel profondo, spero – confessa l’autore, già Palma d’oro nel 2007 con “4 mesi, 3 settimane e 2 giorni” -, che il film parli delle possibilità e delle scelte che nella vita derivano dall’educazione o dalla mancanza di educazione, e di quante cose nella vita derivano da cose che non puoi influenzare, o delle quali non sei colpevole: dove sei venuto al mondo, da chi e in quale comunità”. Il film racconta – conclude – anche di una regione del mondo, come tante altre, dove l’esposizione prolungata a un’infinita successione di eventi sfortunati e atrocità di ogni genere ha condotto a un gruppo di persone inerti che hanno perso le normali reazioni di fronte a degli stimoli normali. Non è necessariamente colpa loro, è solo un naturale meccanismo di sopravvivenza, ma è una cosa che quelli fra di loro che sono ancora vivi percepiscono come un enorme fardello”.
Un solido dramma per riflettere e capire quanto amore e fede restino ancora un enigma a cui è difficile sfuggire e anche impossibile da capire, soprattutto quando riguarda gli ‘altri’, perché restano sempre e comunque sentimenti intimi, profondi, per chi li vive; e spesso incomprensibili per chi ne è (soltanto) testimone. Forse due ore e mezza di proiezione possono sembrare troppe allo spettatore medio, ma la pellicola ha il ritmo giusto per riprodurre quella cupa atmosfera di torpore che pervade il monastero/prigione, sospeso nel tempo, sottolineata dalla fotografia di Oleg Mutu. Nel cast anche Valeriu Andriuta (il prete), Dana Talapaga (madre superiora), Catalina Harabagiu (suor Antonia), Gina Tandura (suor Iustina) e Vica Agache (sorella Elisabeta). José de Arcangelo 4 stelle su 5 Nelle sale dal 31 ottobre distribuito da Bim

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