lunedì 5 novembre 2012
"Venuto al mondo" nella Sarajevo distrutta dalla guerra, nel film di Castellitto-Mazzantini con Penelope Cruz
Dopo l’anteprima al Toronto Film Festival, approda nelle sale da giovedì 8 novembre in 350 copie distribuito da Medusa, il nuovo film di Sergio Castellitto “Venuto a mondo” dal romanzo omonimo della moglie Margaret Mazzantini, e con Penelope Cruz protagonista come in “Non ti muovere”. Un melodramma contemporaneo, tra amore e morte, guerra e speranza. Un film che il pubblico italiano vedrà – e forse gradirà - nella versione doppiata, non in quella originale proiettata a Toronto e alla presentazione stampa romana.
“Naturalmente preferisco la versione originale in tre lingue – esordisce Castellitto – perché la protagonista parla italiano con i suoi e in inglese quando si trova da un’altra parte, ma per ovvi motivi abbiamo dovuto doppiare il film e devo dire che è stato fatto un ottimo lavoro, seguito da me stesso per ritrovare le ‘voci del film’, come quella di Gojko/Adnan Haskovic che ha il timbro rocco e meraviglioso che Margaret aveva descritto nel libro”.
Soprattutto perché non solo il film – coprodotto da Medusa con la spagnola Telecinco -, ma anche la storia è internazionale, come del resto l’ottimo cast che conta inoltre su un sorprendente Emile Hirsch, Saadet Aksoy, Luca De Filippo, Jane Birkin, Mira Furlan, Jovan Divjak e lo stesso regista-sceneggiatore, che si è ritagliato il piccolo ruolo del secondo marito, anzi del terzo; e del figlio Pietro Castellitto.
Tra presente e passato, flashback e memoria, verità nascoste o non dette, la storia di Gemma (Cruz) che si reca a Sarajevo col figlio Pietro per assistere a una mostra in memoria delle vittime dell’assedio, che include le fotografie di Diego (Hirsch), padre del ragazzo. Infatti, diciannove anni prima, Gemma lasciò la città in piena guerra con Pietro neonato lasciandosi alle spalle il marito americano che non avrebbe mai più rivisto, e l’improvvisata famiglia sopravvissuta: l’irreverente poeta bosniaco Gojko, non troppo segretamente innamorato di lei, la ribelle giovane musulmana musicista Aska (Aksoy) e la piccola Sebina.
L’intenso amore e la felicità tra Diego e Gemma non erano sufficienti per colmare l’impossibilità della donna a concepire un figlio. Nella città semidistrutta, la coppia aveva trovato una possibile surrogata in Aska. E Gemma spinse Diego tra le sue braccia per poi essere sopraffatta dal senso di colpa e dalla gelosia…
“Quando ho letto il libro – confessa Penelope Cruz – mi sono innamorata della storia e del personaggio, la stessa cosa mi era successa con ‘Non ti muovere’. Fare un viaggio con questo personaggio, con questa donna, era diventato un’ossessione, ed è la prima volta che mi accade al cinema. E sono stata felice perché Margaret e Sergio sono riusciti a fare una sceneggiatura in cui c’è tutta l’essenza di un libro di 600 pagine, un compito quasi impossibile. Devo confessare che l’idea di fare il film è nata tre anni prima che io diventassi madre. Prima capivo il personaggio in quanto donna, ora come madre capisco molto di più quello che lei non può avere. Un desiderio che vive in modo particolare che, comunque, possono capire tutte le donne”.
“Di consueto gli scrittori non sono mai contenti perché sempre di riduzione si tratta – chiosa Margaret Mazzantini, anche co-sceneggiatrice – però Sergio è il mio primo lettore e mi dice cosa ho scritto e fatto. E’ come andare verso l’ignoto, l’inconoscibile; come innalzare una cattedrale magari prendendo un sentiero laterale. Abbiamo lavorato con passione, tenuto l’ossatura, anche se delle cose mancano sempre, ma con Sergio condividiamo la vita, abbiamo la stessa visione del mondo, una strada comune. Abbiamo lavorato tantissimo a questo progetto, difficile, duro, perché c’era da ricostruire una guerra, i dettagli, i costumi, i sentimenti. Al contrario di ‘Non ti muovere’, stavolta ho partecipato di più alla lavorazione. Se penso a Gemma, vedo una figura più algida, un altro tipo di donna a cui Penelope ha dato carnalità, sensualità, forza e una grande umanità”.
“E’ stata un’avventura umana – riprende Castellitto -, molto professionale, straordinaria, dove ognuno di noi ha messo qualche parte della propria vita, nata sei anni fa. Siamo andati a Sarajevo diverse volte, una città ancora fuori sincro, dove vittime e carnefici girano insieme, ignari l’una dell’altro e senza sapere perché; il film invece è l’esatto opposto una storia d’amore dilaniante perché come diceva Tarkovskij ‘ogni opera artistica, ogni film è una dichiarazione d’amore’. Racconta una verità che non volevo svelare, che non va completamente svelata. I film devono raccontare una storia e ho cercato di metterla in scena teatralmente, che ‘emozionasse’ con un valore di intelligenza, forse, la parte più pericolosa, più rischiosa per noi. Raccontare i fondamentali archetipi della vita: l’odio, la guerra, la rimozione, ma anche l’amore, la fratellanza, la pace. Un film molto ambizioso, lo so”.
Una passione sincera e ottime intenzioni che, purtroppo, la pellicola non rispecchia fino in fondo; coinvolge ma ci emozione, a volte ci commuove, ma di più nelle scene apparentemente prive di pathos, come quelle di Gemma con la psicologa (Birkin) o col padre (De Filippo).
“Gemma non è molto politically correct – ribatte la Cruz -, ma non ho paura del personaggio, non mi chiedo mai se sono d’accordo o mi assomiglia, non mi faccio delle domande ma cerca di capire la sua psicologia. Non mi deve piacere ma lo devo capire. Non credo che da bambina giocasse con le bambole, ma arriva a questa ossessione perché non ha un altro da dare a questo uomo. Credo che la sua battuta ‘voglio un lucchetto di carne’ dia tante risposte su di lei. Un personaggio interessante dai tanti colori e sfumature, una donna che non ha paura di sembrare antipatica, ma ha un buon cuore; complicata, a volte autodistruttiva, alla quale – dai venti ai cinquant’anni – le succedono tante cose, e che ha una macchia, una ferita, quella di essere sopravvissuta”.
“Ho cercato di fare il cinema con umiltà – conclude l’attore, sceneggiatore e regista -, ho tagliato qua e là dove sentivo la fiction e attraverso una messa in scena di forte teatralità, visto che la cronaca cine-televisiva ci ha abituato ad un gusto dell’immagine (la morte in diretta di Gheddafi è stata girata benissimo) oltre la notizia. Non volevo scene di passaggio, ma avvenimenti interiori come la nascita, la morte, il colpo di fulmine, la scoperta del sangue, della passione, della guerra, che colpissero l’intelligenza emotiva del pubblico. Le musiche piacciono molto al pubblico, meno alla critica – afferma -, ma sono una sorta di bisturi del melodramma, e in questo senso Almodovar e Bellocchio sono dei maestri. Serve a tagliare la ferita per fare uscire dal film una partitura di suoni, luci e parole. Ma altre volte brilla per l’assenza”.
Ma non è facile rievocare il vero melodramma (lirico), l’unico vero maestro in questo campo si chiamava Luchino Visconti. Altrimenti si rischia di fare ‘cinenovelas’, anche di lusso. Perché no?
José de Arcangelo
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