mercoledì 9 gennaio 2013

Gabriele Muccino confessa: "Quello che so sull'amore", sul cinema e su Hollywood

Dopo le feroci stroncature americane arriva nelle sale italiane – da domani in 340 copie distribuito da Medusa – l’ultima fatica del regista Gabriele Muccino e in fin dei conti il suo primo film americano in tutto e per tutto, perché né personale né classificabile, come del resto i suoi precedenti. Un prodotto medio né meglio né peggio di quelli che ci propinano le major hollywoodiane. Certo, si tratta più che altro di un ‘dramedy’ come la definiscono negli States anziché una ‘romantic comedy’ come la presentavano e volevano fosse i produttori americani.
Scritta da Robbie Fox, la storia non è originale, se volete convenzionale, ma incentrata su rapporti e sentimenti, valori e famiglia. L’ex campione di calcio George Dryer (Gerard Butler) che negli anni del successo, ancora profondamente immaturo, ha tradito l’amata moglie Stacie (Jessica Biel), finendo per perdere sia lei che il figlio Lewis (Noah Lomax), torna a vivere dove abita il ‘cucciolo’, deciso a rinascere cercando un lavoro come commentatore sportivo in città e tentando di recuperare il rapporto col bambino. Ma si ritrova ad allenare proprio la squadra di calcio del figlio e, senza volerlo, diventa oggetto di chiacchiere e attenzioni delle mamme degli altri ragazzi (tra loro Uma Thurman e Catherine Zeta Jones). “Non è una commedia romantica – esordisce il regista alla presentazione romana -, ma drammatica che non significa tragica. Un film di relazioni umane, commoventi per definizione, sui valori, sul ritrovarsi; fatti che fanno parte delle nostre vite. Il problema non è stato tanto durante la lavorazione quanto per l’uscita. Il distributore ha deciso che era ‘una commedia romantica’, io la definizione l'ho imparata, e la mia è molto più al margine. Le commedie romantiche americane sono ibridi che da noi ormai non piacciono, perché non hanno più il livello di ‘Harry ti presento Sally’ e nemmeno di ‘Notting Hill’ che, per me, è l’ultima degna di questo nome da loro realizzate. ‘L’ultimo bacio’ non era adattabile ad un genere, nemmeno ‘Sette anime’, e la Sony non sapeva in quale genere catalogarla. Ma loro vendono un ‘genere’, oltre il cast, ed è prioritario per loro trovarglielo. Definirono ‘7 anime’ un thriller, ma il pubblico si trovò davanti agli occhi un ibrido. Sono film che non possiamo catalogare, e perciò la critica ha fatto delle stroncature enormi. Sul New York Times hanno scritto che era ‘così brutto che i giapponesi ne avrebbero fatto un film horror’”.
“Quindi, questa non è una commedia romantica, ma a loro non importa che film facciamo basta che lo vendiamo. ‘La ricerca della felicità’ e ‘Sette anime’ erano degli ibridi ma hanno fatto incassi enormi, perché Will Smith è anche un bravissimo venditore e produttore. In questo caso l’insuccesso di critica e di pubblico, è dovuto anche a trailer confusi, perché non sapevano come pubblicizzarlo, il manifesto era bruttissimo, il titolo insignificante, ‘Playing for Keeps’, che vuol dire ‘giocare in ritirata’, ed è uscito nel weekend più debole dell'anno, quando le donne fanno lo shopping prima di Natale, non a caso era l’unico film in uscita. Il resto del pubblico aveva già visto ‘Skyfall’, e inoltre questo era un genere che non gli apparteneva. Parlando di test screening, quando è stato fatto ha avuto un numero di gradimento molto alto, più dei film drammatici, addirittura molto buono o eccellente. E solo nel caso in cui il gradimento è meno del 60 %, il film esce direttamente in dvd, quindi, altrimenti non sarebbe nemmeno uscito. Poi, per capire il passaparola, ci sono delle agenzie che interrogano gli spettatori all'uscita di sala, il cosiddetto ‘cinemascorre’, che ha una certa rilevanza. Il gradimento è stato più di quello che si aspettavano, ma loro sono ossessionati dal box office. Perciò è inesatto dire che il pubblico non l'ha gradito, solo che subito dopo gli arrivano addosso i film commerciali di Natale o quelli in corsa all'Oscar. E’ la legge di mercato, si può sbagliare o no. Ho incontrato Curzio Maltese a New York, che ha scritto una cosa che non so se l'ho detta o meno, ‘Hollywood è spietata’ o roba del genere. I maggiori successi li ho fatto con la Sony, la major più importante dopo la Fox, e con Will Smith, l’attore più potente al mondo. Poi mi hanno offerto altri film che non ho accettato, forse ho fatto degli errori a scegliere, ma il mio rapporto è stato idilliaco. Questo film in realtà è indipendente, fatto con fondi di vari paesi, uno dei maggiori è Giampaolo Letta (amministratore delegato di Medusa che chiarisce che i produttori italiani sono i fratelli Leone, figli di Sergio ndr.). Non fa parte dell'entourage hollywoodiano, anche se ben 13 produttori possono essere un po' invasivi, mentre è stato il distributore che ha messo il film in un certo modo, non adatto”. “Il mio rapporto col calcio è inesistente – confessa il regista sul tema che fa da sfondo alla storia -, sono andato allo stadio due volte nella vita, e non ho mai avuto una passione per il calcio, né per le attività sportive in genere, ma il film non è affatto sul calcio. Se il protagonista è un ex calciatore è casuale, anzi l’abbiamo fatto diventare tale, perché originariamente era un ex campione di baseball, uno sport incomprensibile per noi, e soprattutto perché prodotto anche da europei”.
“Ho peccato perché in America il regista che non è produttore del film – afferma -, deve diventarlo o avere un produttore-partner che lo difenda e abbia voce in capitolo. Io non avevo un produttore, di solito sono una persona simpatica e quando mi hanno chiesto insistentemente di togliere alcune scene, non ero lucido e mi sono messo a fare delle modifiche. Fatto il primo screening con questi cambiamenti andò male. Ma la mia forza di volontà può essere illimitata, e l’ho rifatto con la mia versione ed è andata molto bene. Sono state tolte tre scene drammatiche, due con Uma Thurman – secondo me splendide -, ma visto che andavano a vedere una commedia romantica, queste scene hanno creato una frizione. Infatti, molti hanno scritto che non gradivano la scena di Thurman nel bagno, dove rivelava tutta la sua infelicità e insoddisfazione di donna. Non c’è nessuna scena di quella spessore, ma togliendola ho dovuto girare altre che la sostituissero, e rendessero il tutto più omogeneo. Amo il cinema italiano, ma non amo quello americano che viene visto sotto le feste di Natale o concorrono per l’Oscar. I più belli li vedo soprattutto d'estate, fatti da registi e produttori che non pensano solo agli incassi. Come regista ho avuto diritto a due test, il primo tutto giocato dando retta al produttore, l'ultimo nella mia ‘versione’, anche se andò bene, c'era il tormentone della scena drammatica. Will Smith l'avrebbe lasciata, perché anche lui pensa che se vai dietro il parere del pubblico puoi fare degli errori. E come lui ci sono produttori che sanno dosare il gusto del pubblico. ‘Quello che so sull’amore’ nel dna non è una commedia romantica”. Il protagonista?
‘Gerard Butler ha fatto belli incassi, non solo sul box office americano, ma nel resto del mondo che vale il doppio. Poi veniva da commedie romantiche di successo, perciò i produttori lo volevano. Lavorare con lui e con gli altri è stato bellissimo perché tutti professionisti, disponibili, anche Catherine Zeta Jones è stata duttile come un’esordiente, c’era una grandissima complicità, tanto che Dennis Quaid, che ha divorziato, tutti i weekend piomba in casa a trovarmi con i bambini e me li lascia pure. E’ simpaticissimo, ma a volte uno vuole stare a casa buttato sul letto... Will Smith se va in Pakistan lo fermano per strada, con lui non puoi camminare per strada nemmeno a NY, e ho capito cosa sia in America lavorare con una star di quella potenza e umiltà, essere letteralmente strappato dall'Italia, quando la Columbia non voleva un regista che parlava male l’inglese, per un film ambientato negli anni ’80, quando io ero ancora al Mamiani. Ma lui ha detto ‘se non lo volete andiamo da un altro studio’. Credo che lui sia nato da una formina unica”. Ma come ha fatto a resistere così a lungo a Hollywood?
“Ci sono riuscito perché sono matto – ribatte -, tanto da mettermi in gara con Ron Howard, Spielberg e Zemeckis per lo stesso progetto, è come giocare a calcio contro Lionel Messi. Sono un privilegiato storico, lo so, perché credo nessun italiano l'abbia fatto, i miei colleghi illustri, Sergio Leone e Bernardo Bertolucci hanno girato film in inglese con soldi europei. Oggi se devo fare un nome conosciuto è proprio Leone - che è come dire Disney -, ma quando ne ha fatto un film interamente americano (“C’era una volta in America” ndr.), non è stata una passeggiata. Se sono l’unico che è riuscito forse perché ho una capacità che non pensavo di avere in una società ancora a me estranea, perché sono diversi da noi che siamo più sanguigni, temperamentosi, loro non urlano mai, siamo diversi, ci sono delle differenze culturali che ho dovuto gestire. Su tre film fatti, nessuno ha mai detto 'il regista italiano' forse perché non ho mai fatto un film che possa risultare artificioso, sofisticato, come quando un americano fa un film in Italia. Gli americani parlano dell'Europa in modo generico come noi dell'America. Parlare del mio primo insuccesso non è esatto perché il film non rientra nel sistema Hollywood in senso stretto. Anche perché loro hanno dichiarato un budget superiore, ma secondo me è costato intorno ai 20milioni di dollari (ne ha incassato 13 ndr.), il mio film è a bassissimo costo rispetto alla media americana, ma è stato venduto in molti paesi, mancano solo il Giappone e il Medio Oriente, però è andato molto bene in Russia”. “Ho letto un bellissimo copione che farlo costerebbe forse 7 milioni, ma poi non si è fatto niente. La Searchlight è una branca che fa riferimento al capo della Fox, prendono i film dai veri indipendenti e li vendono nel resto mondo. Io ho fatto due con la Sony, ma finanziati da Relativity Media che è una casa di produzione indipendente. Gli studios si avvalgono di finanziatori che a loro volta svolgono la loro attività da indipendenti. Il mio è in inglese ma girato con soldi raccolti da fondi europei. Il mio prossimo film in inglese lo sto scrivendo, è ambientato America e lo girerò con quel sistema ma, forse, sarà posticipato. Ma per questo film ci vuole una protagonista più giovane della Thurman, però uno con cui vorrei lavorare è Woody Harrelson”.
A proposito di riferimenti, citazioni e ispirazione. “C'è moltissimo nel subconscio di un artista, mentre giravo ‘La ricerca della felicità’ ho pensato più a ‘Ladri di Biciclette’, mentre per ‘Sette anime’ il riferimento era ‘Il sesto senso’. Stavolta non avevo nessuno, se non la mia vita. Il voler raccontare una storia di crescita e di viaggio verso la maturità, visto che molti di noi continuano a comportarsi da adolescenti, ma questo non ti fa confrontare veramente con la vita, forse ciò accade a quarant'anni. Quando c’è una barriera davanti alla quale non puoi far finta di niente: se diventare uomo o continuare ragazzo. Sennò si arriva male, per arrivare alla terza età ci vuole una realtà più costruita. Io sono uno che vuole diventare maturo, almeno uno che ci prova, è sempre meglio questo che non pensarci affatto”. “Il finale era aperto, semplicemente – confessa -, solo che poi il film va avanti, lui gioca col bambino, la moglie guarda dalla finestra... Loro non capivano questa chiusura, e così l’ho fatta uscire di casa. Non credo che la gente abbia letto tutti i giornali americani, mi auguro che il mio pubblico – un privilegio che pochi registi hanno – mi segua, conto su di loro. Anche perché dopo che ‘7 anni’ era stato stroncato in America, in Italia fece oltre 11 milioni di euro”. Tornerà in Italia?
“Non voglio uscire dall'arena senza aver vinto, non fa parte del mio carattere, decido io quando smettere, perché nella vita si può anche smettere. Io ho un privilegio che in America i registi non hanno, posso sempre tornare in un paese che amo, fare il film che voglio con chi voglio. Ho porte aperte a tante cose, se non le avessi sarei angosciato, perché Hollywood è un sistema che dà angoscia. La Sony ha ridotto i progetti, nonostante una crisi che non riguarda il cinema ma le corporation, e questo si avverte. Prima i film erano più coraggiosi, ora il film drammatico è Belzebù, si fanno solo film di genere, horror, vampiri e fantascienza, però neanche loro sanno cosa funziona e cosa no. La Sony prima era in crisi, con ‘Spyder-Man’ è ripartita. Anche gli studios fanno molti errori, è difficile capire cosa funziona, cosa incassa, cosa può piacere al pubblico che magari poi va a vedere film indipendente che diventa incasso assoluto. Fenomeni che fanno cambiare direzione gli studios finché il nuovo trend fallisce. Il vero flop è un film costato 80milioni, più quaranta di promozione, che poi ne incassa 20. Due o tre film all’anno hanno insuccessi di questo tipo, allora i dirigenti vengono licenziati, i budget tagliati o i progetti cancellati. Perciò sono tutti terrorizzati dall'insuccesso, dai soldi”. C’è qualcosa di autobiografico nel suo cinema?
“Il regista ha due possibilità di essere autobiografico una per quello che ha scritto o osservato, l'altra nello scegliere progetti in cui si riconosce, leggere racconti in cui trova un’identificazione particolarmente empatica. In quei personaggi, uomo, donna o bambino, c'era una parte che mi appartiene. Persino ‘L'isola di Arturo’ (di Elsa Morante ndr.) lo sentirei più autobiografico de ‘L'ultimo bacio’. Nella società americana, neanche le donne mi sono piaciute, penso siano un po' come gli americani stessi che non ti dicono mai quello che hanno nel cuore. Loro divorziano in silenzio, noi invece ce lo diciamo anche quando poi non lo facciamo. A loro basta una frasetta ‘I can’t do this anymore’ (t.l. non posso più fare questa cosa) ed è finita. Il tessuto sociale non esiste, le famiglie sono smembrate”.
“L’ho scoperto nel 2000 quando ci siamo incontrati per la prima volta con Gabriele – dichiara Letta -, da allora non è cambiato assolutamente nulla. Il film ce l'aveva raccontato, l’avevamo visto al montaggio, seguito bene il percorso. Anche il precedente che era andato non bene negli Usa e bene in Italia e altrove. Abbiamo tante idee, ci parliamo spesso su progetti futuri, anche italiani; produzione più allargata al film indipendente americano/internazionale e, forse, sono più rassicurato di prima. Abbiamo lavorato moltissimo su molti materiali visti in America, dal poster al trailer anche radiofonico, e c’è stata una collaborazione ottima come sempre, consapevoli della sensibilità del pubblico italiano, abbiamo deciso come modificare i tanti materiali promozionali del film”. José de Arcangelo

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