martedì 15 gennaio 2013
La fine delle illusioni e dell'ideologia dopo il Maggio '68 in "Qualcosa nell'aria" firmato dall'ex ribelle Olivier Assayas
Reduce del Premio per la migliore sceneggiatura alla 69a. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, approda nelle sale - dal 17 gennaio distribuito da Officine Ubu in 35 copie - "Après Mai" di Olivier Assayas, diventato "Qualcosa nell'aria" perché fa riferimento alla generazione che visse da adolescente i fatti del '68 francese e ne seguì le orme, almeno fino ad un certo punto. Quindi la storia del risveglio socio-politico di un gruppo di giovani liceali che affrontano per la prima volta l'università e le prime scelte importanti delle loro giovanissime esistenze. Al centro della storia Gilles (l'esordiente Clément Metayer), preso dall'effervescenza politica e creatrice del suo tempo; e Christine (Lola Créton, rivelazione di "Un amore di gioventù"), anche lei divisa fra impegno e cinema, relazioni amorose e rivelazioni artistiche.
"Ho spesso l'impressione che il film nascano da soli - confessa Assayas -, che quasi mi si impongano. E' successo con 'Après Mai'. Da parecchio tempo sentivo molto forte l'esigenza di dare non esattamente un seguito, ma un prolungamento, ad un mio film del 1994, 'L'Eau froide'. Lo considero come un secondo primo film, un modo di rimettere in gioco la mia pratica del cinema. Un film che mi aveva preso un po' alla sprovvista. Poi ho capito che mi aveva spalancato delle porte, in particolare quelle dell'autobiografia. Ricordo lo stupore al montaggio nel vedere le scene della festa notturna (che corrisponde solo ad alcune pagine di sceneggiatura, ma costituisce quasi un terzo del film finito): il fuoco, gli adolescenti, il fumo... Avevo l'impressione di aver colto qualcosa della poesia di quell'epoca, quella della mia adolescenza, all'inizio degli anni '70. Restava la sensazione che un giorno questa materia poteva originare un film più vasto su quell'epoca poco conosciuta, appassionante, ma di cui il cinema diffida molto, al punto da saperla trattare solo attraverso l'ironia".
Invece in "Qualcosa nell'aria" è "l'aspetto musicale quello autenticamente autobiografico - prosegue -, sono le cose che io ascoltavo, non le icone collettive ma spesso band seguite da un pubblico minoritario, di gruppi oscurissimi ai più. Sono il mantra della mia adolescenza. E poi eravamo di fronte ad una realtà non cittadina, in connessione con la natura, scelta propria di quel periodo e tema presente nel folk inglese. Di solito non si ricordano gli anni '70 in questo modo, ma ciò mi ha aiutato tanto. La mia ispirazione non era allora Foucault ma i filosofi usciti dalla scuola di Francoforte, e girava intorno a Debord. Molti autori assimilati alla cultura libertaria hanno avuto un ruolo importante per me, spingendomi ad allontanarmi da quelli della mia generazione e dalle loro icone che erano raramente le mie. Ne cito alcuni, in filigrana, nel film. Qualunque sia l'ettichetta che si applica loro, i saggi di George Orwell, e in particolare 'Omaggio alla Catalogna', hanno contato molto per me. Li leggevo in inglese perché erano inaccessibili in francese, la maggior parte non erano mai stati tradotti e gli altri erano esauriti da tempo. Poi c'è stato 'Gli abiti del presidente Mao' di Simon Leys, prima denuncia venuta dai ranghi dell'estrema sinistra sui deliri della Rivoluzione Culturale Cinese, edito in Francia da Champ Libri del 'vecchio' situazionista René Viénet (sinologo, cineasta, editore ndr.). Poi, ma prima di tutti, Guy Debord. Purtroppo ho scoperto l'Internazionale Situazionista nel momento stesso della sua dissoluzione. Le ultime parole di 'Qualcosa nell'aria' sono tra l'altro riprese proprio dall'atto di decesso dell'Internazionale Situazionista, 'La Vera Scissione dell'Internazionale'".
"I personaggi sono ispirati a persone reali così come le situazioni - aggiunge -, e lo stesso movimento aveva a che fare con la condizione della donna, sul machismo che ce n'era e da cui è nato il femminismo. Le ragazze, infatti, avevano allora un ruolo secondario, nonostante avessero la stessa educazione politica in realtà non avevano lo stesso ruolo dei maschi. Era un elemento importante per il film, perciò nella scene in cui i militanti discutono, Christine è stata a fare la spesa, mette a posto casa e comincia a cucinare."
Poco ne sanno, ovviamente, i giovanissini interpreti arrivati a Roma - per la presentazione romana del film -, al posto dei protagonisti.
"Non mi sono mai posto il problema - afferma Hugo Conzelmann che è Jean-Pierre -, ma penso che in quegli anni proprio tra i militanti i rapporti uomo-donna hanno cominciato ad equilibrarsi".
"Non ho fatto molta attenzione alle persone che hanno vissuto quel periodo - ribatte Carole Combes che è Laura, primo amore del protagonista -, visto che il mio personaggio non apparteneva al gruppo di attivisti, ma al suo carattere e al suo rapporto con gli altri personaggi del film".
"Il cinema è il campo artistico in cui l'autore è meno solo - riprende Assayas -, c'è una certa solitudine nell'atto creativo, soprattutto quando il regista è anche sceneggiatore, perché sul set può essere solo in mezzo al caos. Infatti, il regista non è come il pittore che lavora in solitudine chiuso nel suo studio, ossessionato dalla propria immaginazione. Io, invece, non sopportavo più la solitudine e il cinema mi ha offerto una soluzione, perché ti aiuta ad andare avanti nell'esplorazione del mondo, di lavorare in esterni, di andare come ho fatto io a Hong Kong, in Giappone, nel Messico. Il cinema è paradossale, sono solo soltanto quando scrivo."
E il cinema anch'esso allora diviso tra documentario militante e cinema d'autore, quindi rappresentazione artistica, è uno degli argomenti del periodo e della pellicola.
"Mentre facevo il film mi sono posto delle domande e mi sono messo delle questioni su quelli anni - riprende su "Après Mai" -, ho l'impressione che allora ci sia stata un'energia collettiva, l'impegno da una parte che allora era una maggioranza, se non la totalità dei giovani, un potenziale straordinario. Il mondo è cambiato, soprattutto, dopo il fallimento ideologico e il disastro del terrorismo che fece fuggire la maggioranza dalle responsabilità politiche. In Germania, Italia, meno in Francia, i più erano spaventati da quello che accadeva, forse perché c'era qualcosa di sbagliato nell'utopia. Vivere dentro l'utopia era la caratteristica degli anni '70 finché il reale è rientrato di prepotenza in quel mondo ideale e astratto. Allora in Europa c'era la tensione di vivere il momento storico, poi, finite ideologia e guerra fredda, la storia si è spostata altrove e l'Europa si ritrova ora decentrata."
"Dopo le proteste del 1967 negli Stati Uniti - aggiunge -, c'è stato il Maggio '68 francese, che dimostrò il potere collettivo della gioventù, la bellezza di un momento di libertà in cui regnavano l'anarchia e il caos e si metteva in discussione tutta la politica, inclusa la sinistra tradizionale. Infatti, dopo il Maggio '68, la sinistra si è divisa in tanti piccoli partiti, troskisti, maoisti, estremisti e così via. Ma c'era anche una grande energia dedicata alla natura, alla creatività artistica e poetica".
"La gioventù oggi - conclude - vive in un presente amorfo. E' fuori dalla Storia, ciclica, immutabile. L'idea che si possa avere presa sulla società, che se ne possa ripensare la natura stessa, è diventata molto vaga e convenzionale. Si riassume pressappoco in termini di esclusione e inclusione. Si dice spesso che tutto è dovuto alla diffusione della disoccupazione giovanile. Questa mi è sembrata sempre una spiegazione semplicistica ed insoddisfacente. Non ci si proietta verso un futuro radioso e utopico, si chiede allo Stato di combattere l'esclusione. Le rivendicazioni sono frammentarie, settorizzate; ci si rivolta contro le ingiustizie ma senza un'analisi globale. Negli anni '70 ci si opponeva all'idea stessa dello Stato. Nessuno voleva esservi incluso, l'obiettivo era piuttosto quello di esserne esclusi".
E, infatti, questo tipo di discussione è sullo sfondo, quasi una struttura filosofica delle prime sequenze dell'intensa opera dell'ex ragazzo ribelle Assayas, un quadro senza nostalgia, lucido e, in fondo, amaro sulla fine di un'utopia, appunto. Delle illusioni perdute di una generazione che sognava un mondo migliore.
Nel cast anche India Menuez (Leslie), Martin Loizillon (Rackam il Rosso), Mathias Renou (Vincent), Léa Rougeron (Maria) e con la partecipazione di André Marcon, Johnny Flynn e Dolorès Chaplin.
José de Arcangelo
(4 stelle su 5)
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