venerdì 25 gennaio 2013

Un "Quartet" ultracentenario da Oscar per l'esordio nella regia di Dustin Hoffman

Quando un film ispira uno spettacolo teatrale che a sua volta ispira un altro film. Così inizia la genesi di “Quartet”, opera prima da regista per il grande Dustin Hoffman, attore cult da quasi cinquant’anni, ovvero da quando debuttò ne “Il laureato” (1967) diretto da Mike Nichols (Oscar solo per lui su 7 nomination) accanto ad una superlativa Anne Bancroft.
Infatti, tutto è nato anni fa dalla visione de “Il bacio di Tosca” (1984) del regista svizzero Daniel Schmid, un piccolo grande docu-film, che fece conoscere al pubblico europeo (ma non solo) i residenti della Casa di Riposo per Musicisti di Milano, istituita nel 1896 dallo stesso Giuseppe Verdi. Ne seguì una serie di innamoramenti e coincidenze a catena fino all’incontro tra famosi artisti - autori e attori - che hanno dato vita ad un’altra, ‘deliziosa’ – stavolta una definizione più che azzeccata -, commedia sulla terza età e segnato il passaggio alla regia di un grande, veterano, attore come Dustin Hoffman. “Quartet” colpisce, infatti, perché non è la consueta storia drammatica, spesso tragica e/o pessimistica di un ‘mucchio di vecchietti’ rinchiusi per amore o per forza in ospizi di ogni sorta, ma una commedia sull’arte dell’esistenza, sul come vivere la vita fino in fondo e fino alla fine, ‘recuperando’ il tempo perduto, gli affetti e i sentimenti trascurati, cancellati o persi lungo gli anni per egoismo e/o sensi di colpa. Per tutto questo, situazioni, persone/personaggi e argomenti, che il commediografo Ronald Harwood scrisse la pièce teatrale, il grande attore Tom Courtenay (famoso e bravissimo nel cinema britannico anni ‘60/’70) se ne innamorò e chiese allo stesso autore di scriverne una sceneggiatura, cui persino la produttrice Finola Dwyer e il direttore della fotografia John de Borman proposero a Hoffman, il quale aveva lavorato con loro da poco (in “Oggi è già domani”) e confessato le sue intenzioni di passare dietro la macchina da presa. Vedendo tutti loro, oltre la commedia, anche il documentario segnalato da Harwood, anche l’ineguagliabile regina del teatro e del cinema inglese (non solo) Maggie Smith ne restò folgorata, tanto da offrire nella versione cinematografica una interpretazione sublime.
A Beecham House regna l’eccitazione perché è diventata insistente la voce che la residenza per musicisti e cantanti lirici in pensione ospiterà una famosa diva dell’opera. Per Reginald Paget (Courtenay, da “Per il re e per la patria” e “Dottor Zivago” a “Servo di scena”), Wildred Bond (il comico Billy Connolly, il solo invecchiato col trucco) e Cecily Robson (Pauline Collins) queste chiacchiere non sono una novità, però quando scoprono che la nuova arrivata è nessun altra che l’ex componente del loro quartetto di canto, Jane Horton (Maggie Smith), restano alquanto scioccati. Anche perché Jean aveva scelto di intraprendere una brillante carriera come solista, non solo alimentando rivalità, invidie e tradimenti, ma finendo per infrangere la loro amicizia e il suo matrimonio con Reggie. E proprio lui è quello che reagisce più violentemente alla notizia del suo arrivo. Ma può il passare degli anni curare antiche ferite? E riuscirà il celebre quartetto a colmare le proprie divergenze in tempo per il tanto atteso concerto di gala (e beneficenza) di Beecham House? A queste e ad altre domande risponde questa commedia, divertente ed elegante, fra lacrime e sorrisi, riflessione ed ironia in cui non solo il ‘quartetto’ d’attori protagonisti dà il meglio, ma anche i ‘veri pensionati’ del teatro, della lirica e del cinema che completano l’ultracentenario cast. Li rivediamo da giovani sui titoli di coda, se amate ricordare o conoscere come erano, eravamo o saremmo, non perdeteli. Ne vale la pena. Merito del neoregista che si rivela, oltre al prevedibile ottimo direttore di attori, anche bravo nella ricostruzione di atmosfere, dosando con saggezza nostalgia e ironia, a rievocare e offrire emozioni e spettacolo, passioni e addirittura fascino e sensualità ultraottantenne.
Naturalmente, ottime anche le musiche non solo classiche e liriche, dallo stesso Verdi (da “La Traviata” e “Rigoletto”) a Schubert, da W.S. Gilbert e Arthur Sullivan (“The Mikado”) a Rossini (“Il Barbiere di Siviglia”), da Puccini a Haydn e Saint-Saens. La colonna sonora invece è firmata dall’italiano Dario Marianelli, Oscar per “Espiazione”. José de Arcangelo (4 stelle su 5) Nelle sale dal 24 gennaio distribuito da Bim

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