giovedì 10 gennaio 2013

Un suggestivo viaggio attraverso i secoli sul filo rosso dell'amore in "Cloud Atlas" dei fratelli Wachowski e Tykwer

Ecco il nuovo – atteso e ambizioso, ma non presuntuoso - film dei fratelli Lana e Andy Wachowski, stavolta in ‘trio creativo’ con l’amico e collega tedesco Tom Tykwer (da “Lola corre” a “The International”) per trasporre sul grande schermo un romanzo che tutti consideravano inadatto al cinema. Nonostante la diffidenza e i pregiudizi dei detrattori, “Cloud Atlas - Tutto è connesso”, tratto dal libro omonimo di David Mitchell (in Italia “L’atlante delle nuvole”, edito da Frassinelli), adattato dallo
stesso team registico, è un gustoso e per nulla noioso, anzi, mix di generi e di contenuti che coinvolge – soprattutto se amate le ‘contaminazioni’ – se partecipate al ‘gioco’ dei fratelli dell’amata/odiata trilogia di “Matrix”, ma anche il tocco ‘europeo’ di Tykwer che ben si fonde con quello dei colleghi. Quasi tre ore di spettacolo attraverso cinque secoli, dall’Ottocento al futuro remoto, naturalmente post apocalittico, ma dove trionfa – ieri, oggi e sempre – l’amore che è forse il filo rosso che tiene in vita ‘l’umanità’, al di là della reincarnazione (vera o presunta) e degli universi paralleli. Una filosofia se vogliamo spicciola che, comunque, ci regge da millenni e, forse, ci aiuta ad andare avanti nonostante le avversità tra bene e male, sentimenti e passioni, odio e amore, appunto.
Un fantastico viaggio attraverso la memoria delle civiltà, un lungo sogno/incubo tramite il ‘dejà vu’ collettivo, universale, ovviamente pieno di rimandi, riferimenti e citazioni, consce e inconsce, in cui si fondono culture e razze, emozioni e scoperte, dolore e gioia, così come il coraggio e la codardia nella sopravvivenza e nel suicidio si soprapongono e si confondono. “La nostra vita non ci appartiene. Dal grembo materno alla tomba, siamo legati agli altri. Passati e presenti. E’ da ogni crimine, e da ogni gentilezza generiamo il nostro futuro”, così recita (nel libro e nel film) il discorso di Sonmi-451, 2144.
Infatti, “Cloud Atlas” affronta quelle domande sull’esistenza e sul suo senso che l’umanità si è posta fin dalla nascita del pensiero umano. Attraverso cinque storie che abbracciano altre tanti generi letterari e cinematografici, dall’avventura storica in costume alla fantascienza, dal thriller politico al dramma esistenziale, un’opera – se volete colossale - che non risulta così complessa quanto sembra. Quasi inutile raccontare le diverse storie intrecciate attraverso i secoli, basta segnalare i personaggi su cui esse ruotano: un avvocato di San Francisco che salva uno schiavo in fuga durante il fatale viaggio di ritorno dalle isole del Pacifico nel 1849; un povero ma talentuoso compositore nella Scozia degli anni Trenta; una giornalista che, nel 1973, mette a repentaglio la propria vita per evitare un disastro nucleare; un editore di oggi che, colpito da improvviso successo, viene rinchiuso in un ospizio-lager; una clone operaia che prende coscienza della propria umanità nel 2144; infine, nel 2300, un pastore in lotta con i sensi di colpa per ciò che ha fatto per sopravvivere, il quale ‘incontra’ una donna venuta da un altro mondo. Tutte le storie sono però interpretate dallo stesso cast, perché gli attori sono ora protagonisti ora comprimari nei diversi episodi, dato che tutto è legato, e possono cambiare non solo sembianze, ma anche razza e sesso se la vicenda lo richiede.
Forse l’unico ad essere sempre lo stesso (caratterialmente) è il grande Hugo Weaving che interpreta il diabolico ‘cattivo’ di turno attraverso i secoli. Tom Hanks, si destreggia tra perfido dottore dell’Ottocento e mite e tormentato pastore del futuro, ma anche nelle piccole parti di feroce scrittore (e protagonista della scena più pulp) e avido portiere d’albergor; mentre Halle Berry è un’impegnata reporter anni ’70 e la donna venuta da un altro pianeta; il premio Oscar Jim Broadbent è l’editore/scrittore del presente, ma anche capitano dell’Ottocento e megalomane, anziano, compositore negli anni Trenta; Hugh Grant passa dal reverendo schiavista Horrox al feroce capo Kona, dei guerrieri cannibali del futuro; Susan Sarandon è ora Madame Horrox ora ‘Abbadessa’ nel medioevo prossimo venturo, mentre i giovani Jim Sturgess (da “Across the Universe” a “La migliore offerta”) è anche lui sempre presente, dall’avvocato idealista ottocentesco all’Hae-Joo Chang del 2144; James Darcy (da “WE” di Madonna all’imminente “Hitchcock”) è il giovane e il vecchio Sixsmith; e la premiata attrice cinese Zhou Xun è sia la clone Yoona-939 sia la dolce Rose di due secoli fa. E ancora, il veterano Keith David (da “Platoon” a “Crash”) è lo schiavo Kupaka e l’agente ed ex marine Joe Napier negli anni ’70; David Gyasi è Autua e Duophysite; la coreana Doona Bae passa da Tilda a clone e donna messicana.
Se tutto funziona ad orologeria è dovuto, oltre a una perfetta sintonia tra gli autori (il film è stato girato parallelamente in due set diversi e lontani, uno guidato dai Wachowski e l’altro da Tykwer), grazie ad un efficace montaggio, anch’esso parallelo ovviamente, firmato da Alexander Berner, già collaboratore del regista tedesco per “Profumo – La storia di un assassino”, e ai due direttori della fotografia John Toll e Frank Griebe. Le scenografia sono di Uli Hanisch e Hugh Bateup, i costumi di Kym Barrett e Pierre-Yves Gayraud. Dan Glass è il supervisore degli effetti visivi, mentre le musiche sono di Johnny Klimek e Reinhold Heil in collaborazione con lo stesso Tykwer. José de Arcangelo (3 stelle su 5) Nelle sale dal 10 gennaio distribuito da Eagle Pictures

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