giovedì 28 febbraio 2013

"Il figlio dell'altra" di Lorraine Lévy, nel conflitto israelo-palestinese la speranza di pace sono le donne e le nuove generazioni

Arriverà il 14 marzo nelle sale italiane "Il figlio dell'altra" della francese Lorraine Lévy con Emmanuelle Devos (da "Sulle mie labbra" a "Gli amori folli"), Pascal Elbé, Jules Sitruk e Mehdi Dehbi. Un emozionante dramma d'attualità che affronta temi importanti cercando le risposte nel cuore della gente comune e affidando le speranze per il futuro alle donne e alle nuove generazioni. La storia di Joseph (Sitruk) che, durante la visita per il servizio di leva nell'esercito israeliano, scopre di non essere il figlio biologico dei suoi genitori, poiché appena nato è stato scambiato per errore con Yacine (Dehbi), palestinese dei territorii occupati della Cisgiordania. La rivelazione getta lo scompiglio tra le due famiglie, costringendo ognuno a interrogarsi sulle rispettive identità e convinzioni, nonché sul senso dell'ostilità che continua a dividere i due popoli. "Nel film, i padri si lasciano sopraffare dalla scoperta - dice l'autrice, a Roma per presentarlo, dopo la partecipazione al Festival di Tokio (Gran Premio della Giuria e per la miglior regia) e l'anteprima al Torino Film Fest - della verità sui propri figli, per loro insopportabile. Preferiscono fuggire che affrontarla. La sofferenza li paralizza. Le madri, invece, riescono presto a chiarirsi fra di loro, cosa che naturalmente non esclude la sofferenza. Il fatto è che le due donne sono capaci di comprendere alcune cose fondamentali: capiscono che i figli che hanno allevato continuano a essere i loro figli; che ora c'è un altro figlio per ciascuna e che non possono ignorarlo, né rifiutarsi di conoscerlo e di imparare ad amarlo; che se occorre tendere una mano, bisogna farlo al più presto, convincendo gli uomini che non esiste alternativa possibile. Il mio film dice che la donna rappresenta il futuro dell'uomo e che quando le donne si alleano possono spingere gli uomini a essere migliori". "Quando i due padri si incontrano - prosegue la regista - sapevo che non si poteva che finire per parlare di politica. Era difficile, anche perché Pascal Elbé (l'attore che interpreta Alon, il padre israeliano ndr.) è molto impegnato in difesa d'Israele, mentre Khalifa Natour (Said, il padre palestinese ndr.) della Palestina, sapevo che entrambi volevano avere l'ultima parola sul set, e io non volevo prendere posizione. C'è invece un crescendo in cui uno parla sull'altro, le voce si incrociano, non lo volevo nascondere ma che il film non fosse di parte. Ho avuto due 'padri spirituali'. Uno è Amos Oz, il grandissimo scrittore e pacifista israeliano, non l'ho mai incontrato ma è come se facesse parte della mia famiglia. Conosco bene la sua opera, ha preso partito per la pace, per cui l'unica soluzione possibile è che ognuna delle parti rinunci alle legittime difese per il dialogo. Le sue interviste rilasciate in Francia sono state raccolte in un piccolo libro che ho distribuito alla troupe, 'Imaginer l'Autre', dove sostiene: 'non dite mai sono pro Israele o pro Palestina, ma per il dialogo. E' questo il messaggio che vuole comunicare il film. L'altro è Yasmina Khadra, uno scrittore algerino e uno dei maggiori intellettuali arabi: gli ho fatto leggere la sceneggiatura per evitare che fosse in qualche modo squilibrata e lui ha annotato sul copione diverse indicazioni poi inserite nel film". "Ho avuto anche due padrini per la sceneggiatura - continua -, siamo due ebrei (lei e Noam Fitoussi ndr.) e Natalie (Saugeon) che è cattolica, mentre la voce del mondo arabo - come accennavo prima - è Khadra (autore de 'L'attentato') che l'ha apprezzata. Non ho visto tutti i documentari sull'argomento, però sono storie che attingono alla realtà, su fatti realmente successi; ho letto molte testimonianze sugli scambi di neonati, israeliani e palestinesi, soprattutto nel 1991, quando ci sono stati i bombardamenti e gli ospedali sono stati evacuati in maniera precipitose. Questi giovani sanno di non essere cresciuti dai veri genitori biologici, ma non sanno veramente chi sono, chi sono i genitori". In uno dei momenti più commoventi del film, quando Joseph fa visita ai genitori biologici e resta a cena, il giovane inizia a cantare e, un minuto dopo, tutti cantano in coro, offrendo un attimo di ritrovata armonia e condivisione. "E' una canzone tradizionale del folklore arabo - confessa la regista -, molto semplice, un po' come in Francia 'Frere Jacques', e ho voluto non tradurla perché non ci si attaccassi al significato intellettuale, ma per rendere solo la passione e l'emozione del momento". "Se avessi messo Yacine mi avreste chiesto perché non Joseph - dichiara la Lévy sul finale -, però all'inizio è Yacine che apre il film con una panoramica di 180° su un palazzo diroccato che va a rifugiarsi in questo luogo dell'infanzia, e l'immagine di Joseph offre il suo sguardo sulla valle a 180°, sono le due metà che insieme danno 360°, la visione del tutto, globale. Sono insieme non solo i due ragazzi, ma anche Israele e Palestina". "Credo che il film uscirà fra poco in Israele, infatti lo presenterò a Tel Aviv - afferma -, ma è già stato presentato al Festival di Gerusalemme, e ho avuto modo di sapere come è stato accolto dai commenti sulla rete, e tutti sono d'accordo sul fatto che ho rispettato entrambi le parti. Era quello che volevo". "Ho incontrato questa gioventù sia israeliana che palestinese - conclude l'autrice -, ho avuto la fortuna di farlo, ma da entrambe le parti del muro, non nutrono sentimenti di odio; hanno tanta voglia di conoscere l'altro, ma soprattutto hanno voglia di spensieratezza, aspirano alla vita normale degli uomini liberi. Sulla rete vedono come vivono negli altri paesi, come sono i ragazzi della loro età. Se non avessi la speranza nelle nuove generazioni sarei morta. La situazione è molto complessa e molto semplice al tempo stesso, basterebbe un nulla per risolverle, solo che poi all'improvviso uno come Giuliano Mercandisse, un intellettuale e artista palestinese che si batteva per il dialogo e la pace, spesso minacciato di morte dagli estremisti palestinesi, e che dovevo incontrare, il giorno prima venne ucciso all'uscita del suo teatro d'avanguardia. E' stato uno shock per l'intero paese, bisogna dar voce a questa libertà, al dialogo. A volte può sembrare semplice... ma non lo è". "Ho lavorato con una troupe e cast palestinesi e anche israeliani, tutti avevano un grandissimo desiderio che il film venisse realizzato. Per raccontarvi la forza con cui ci credevano, vi racconto un aneddotto: il giorno del casting per le madri palestinesi -avevo uno palestinese e l'altro israeliano -, è esplosa una bomba in una stazione dei bus, e sono stati chiusi tutti checkpoint. Tutti mi dicevano non verrà nessuno, ma sono restata lo stesso in attesa delle 12 attrici, per vedere se qualcuna venisse. Sono arrivate solo tre, ma l'attrice che poi è stata scelta, che abita a Ramallah, aveva camminato per 4 ore sulle collini con 40° per evitare i checkpoint. Aveva letto la sceneggiatura e aveva il desiderio che film fosse fatto e di esserci anche lei. E la persona che doveva fare l'interprete se ne era andata. Ho fatto il provino senza capire una parola, ma ascoltandola, ho sentito la forza, il coraggio e l'intensità di quello che stava facendo. Un sentimento condiviso da tutti quelli che ci hanno lavorato. La maggior parte della gente è per il dialogo e la pace, ma una minoranza inquina quel desiderio di integrazione generale". "Circolerà anche la versione originale - assicura Vieri Razzini di Theodora, che distribuisce la pellicola, in originale in 4 lingue (israeliano, arabo, francese, inglese) -, purtroppo l'obbligo del doppiaggio è un 'piccolo' ostacolo, ma lo è comunque per sua natura, anzi contro natura". Nel cast anche Areen Omari (Leila, la madre palestinese), Mahmood Shalabi (Bilal, il fratello palestinese), Diana Zriek (Amina), Marie Wisselmann (Keren), Ezra Dagan (Rabbino), Tamar Shem Or (Yona) e Bruno Podalydès (David). José de Arcangelo

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