lunedì 25 marzo 2013
Approda in sala la terza opera di Giorgio Diritti con Jasmine Trinca "Un giorno devi andare", acclamata al Sundance FilmFest
Dopo il sorprendente esordio con “Il vento fa il suo giro” e l’affermazione con l’acclamato e premiatissimo “L’uomo che verrà”, il regista bolognese Giorgio Diritti è andato in Amazzonia per raccontare, tramite una donna, la ricerca del senso della vita, per comprendere, forse, cosa è per noi la ‘felicità’ di esistere. Questo è in un certo senso “Un giorno devi andare”, già presentato in concorso al Sundance FilmFest e definito “Film incantevole” da Hollywood Reporter e altrettanto elogiato da Variety.
elle sale dal 28 marzo distribuito dalla Bim in circa 100 copie, preceduto da un anteprima a Milano il giorno prima in diretta satellitare, il film segue il ‘viaggio’ di una giovane donna italiana che, dopo la dolorosa perdita del figlio, viene spinta a mettere in discussione ogni certezza e a partire. Su una piccola barca, nell’immensità e la bellezza della foresta amazzonica, Augusta inizia il suo percorso accompagnando suor Franca (Pia Engleberth), un’amica della madre (la francese Anne Alvaro), nella sua missione presso i villaggi indios, scoprendo anche in questa terra remota i tentativi di conquista da parte del mondo occidentale.
Poi, la giovane donna decide di proseguire il suo cammino da sola per andare a Manaus, dove vive in una favela e incontra la gente del luogo, tra la bellezza dei rapporti e la miseria della ‘civiltà’. Infine, riprende il ‘suo’ viaggio fino ad isolarsi nella foresta, accogliendo il dolore e riscoprendo l’amore nel corpo e nell’anima.
“E’ stata un'occasione di viaggio – esordisce Diritti - che abbiamo percorso man mano in scrittura e poi una volta lì modificando alcune cose, raccogliendo altre sempre al fianco di Augusta (la protagonista ndr.) nello scoprire le cose e nel vivere emozioni interiori, alcune dolorose, altre che sono le stesse della vita di tutti noi. Ritrovare delle cose che ti interrogano su qual è la priorità, il desiderio di essere felici o di vivere meglio. Un percorso che ognuno di noi sente il bisogno di dover fare, dopo anni di consumismo, di un’economia di un certo tipo, vissuti con un senso di corsa, di pesantezza, oppressione, angoscia. Certo, forse si può fare anche a Roma, in montagna, mentre un bambino ti corre incontro e ti sorride”.
“C’era già una sensazione femminile evidente nel mio film precedente ‘L’uomo che verrà’ – prosegue -, nella coralità c’era una protagonista bambina. Spesso la storia ci racconta di uomini potenti, orgogliosi che trovano importante affermazione nella guerra, la donna accoglie e tutela la vita, anzi è il tempio della vita; lo sguardo femminile ha un senso di apertura e di fiducia importante nel mondo. Al di là del mio film, credo sia una sensazione generale, anche se sentire parlare di quota rosa fa un po’ ridere, qualcosa comincia a muoversi, ho molte amiche tanto care nelle quali trovo un senso di accoglienza, una grande sensibilità nel rapportarsi alle cose della vita”.
“Giorgio è controcorrente, fa parlare le persone che di solito non parlano – dice la protagonista Jasmine Trinca -, spesso nelle sue opere compaiono donne e bambini. Sono rimasta colpita dal coraggio, e mi complimento con lui, nel voler raccontare qualcosa di diverso che sta in ognuno di noi, ma non viene quasi mai mostrato. Non ho fatto un grande sforzo nel recitare, perché bisogna soprattutto osare. Uno pensa che deve arrivare Almodovar per parlare di donne, ma questo è un universo che è un po' lo specchio di tutti noi. Poi è arrivata Tania (Pedroni, la co-sceneggiatrice col regista e Fredo Valla ndr.) e tutto è stato completato, e il film è partito nell’unico modo possibile. Non si poteva andare in Brasile con la presunzione di ‘regista, attori e tecnici’, ma aperti all'incontro come dei fanciulli innocenti che si fanno male ad un ginocchio; rispettare il posto dove andavamo e accogliere la priorità delle cose, perciò il film non è solo narrazione, a volte è documento”.
“La preghiera (fatta dalla donna brasiliana arrivata in Italia, nel prefinale ndr.) fa parte di quelle magie che avvengono durante la lavorazione – afferma il regista -, non so come è arrivata; non è frutto della scrittura, ma naturale dimensione del film, il riconoscere i grandi valori della vita nella semplicità”.
“Nel 2000, io e Giorgio abbiamo passato quattro mesi in Amazzonia per un lavoro diverso – ribatte lo sceneggiatore Valla -, e incontrato grandi situazioni, storie che in parte abbiamo utilizzato, ispirato il film, soprattutto un uomo che si chiamava Augusto e poi diventato Augusta, perché al femminile ci consentiva un discorso diverso, lavorare di più sull’introspezione, sulla ricerca di un senso della vita, che può essere Dio. E’ un film sulla vita, dalle prime immagini (feto in trasparenza sul cielo). Il grande problema di Augusta prima è l’incapacità poi quello di comprendere se stessa, non so se fino in fondo. Una cosa molto bella è stato l’incontro con Tania, più della realizzazione artistica un percorso che si è fatto assieme. L’aver compreso cose diverse, condiviso quasi un mese con un prete che ci vive e lavora, quella messa in cui ci si tiene per mano, imparare cose molto semplici per arrivare al cuore delle persone”.
“Un senso di comunità accompagna il film – riprende Diritti -, in questo senso anche la troupe, un’esperienza straordinaria perché abbiamo passato più di un mese di vita nella palafitta, molti attori sono stati presi lì, e per le scene corali mi serviva la gente del posto. La preziosità della comunità è che se sappiamo esserlo aiuta a risolvere i problemi ed è la chiave della felicità. Un senso forte di minaccia viene dalla dimensione del progresso che fomenta qualcosa che fa vendere un bambino, o che porta ad ipotizzare quella sottospecie di campo di concentramento che è la periferia di Manaus e di tutto il paese. Hanno sì un tetto, la luce elettrica, l’acqua potabile, ecc., anziché le case costruite da loro, dove vivono insieme agli altri, con quelli con cui sono cresciuti e vissuto. Nelle ‘case’ perdono valori importanti del vivere insieme. Nelle palafitte i bambini sono i figli di tutti, se hanno un padre e una madre incapaci di adempiere il loro ruolo, possono trovare negli altri i riferimenti giusti, perché nella comunità gli orizzonti educativi si allargano”.
“L’unico modo possibile per fare un film così – condivide la protagonista -, non potevamo andarci con l’idea di portare noi il cinema e mettere gli altri in assemblea, ma con un senso di apertura totale, anche perché c’è gente che non ha mai visto un film, non hanno alcun riferimento. Mi sono adattata, dovevamo arrivare lì, metterci in ascolto e con gli occhi spalancati, al di là di come io ho fatto o non fatto, con un’altra attrice forse sarebbe stato diverso. Siamo arrivati lì senza la malizia di fare il furto, ma per ‘conoscere’. E c'era per forza l'integrazione, la cosa mi ha più colpita perché è un posto un po' difficile che ti potrebbe spaventare, però siamo andati e una volta lì ho capito perché vivono così, qual è il senso di comunità, di integrazione totale. Nell'ultima scena col bambino, non parlando la loro lingua né il portoghese, ho utilizzato il codice che uso per comunicare con mia figlia, funziona a Roma ma pure sulle rive del Rio Negro, l’esperienza e la voglia di giocare con una bambina”.
“La tana è il mondo – riprende l’autore a proposito della ‘ricerca’ -, certo, certe cose le respiri, le senti nell'aria, i rapporti coi luoghi e la fede. La prima volta che sono partito per girare dei documentari in Amazzonia è stato dopo la morte di mia madre, la mia formazione è cattolica, ma ora sono distante dalla dimensione della Chiesa come è oggi, ma sono sempre affascinato dal cristianesimo. Infatti, è stata una prima traccia emotiva per il film, la vita da credente inevitabilmente ti porta a dubitare, ti riporta a questo dubbio. Nel percorso di scrittura, però mi è sembrato giusto non rispondere più di tanto, ma prendevano forza dei precedenti, il bene della comunità che porta al bene del singolo, la sincerità di un bimbo che sorride è innegabile perché ti dà un respiro di vita che può essere dono di Dio o del caso, e volevo riuscire a trasmettere tutto questo. Forse nella vita stiamo tanto con la testa, mentre sarebbe meglio se vivessimo un po’ più di pancia, col cuore”.
“E’ una situazione estrema, mi esaltano la canoa, il vento – ribatte la Trinca -. Io non ho avuto nessuna educazione religiosa, il mio contatto con l’immateriale è molto lieve. Realmente, il caso ha voluto che anch’io partissi dopo una grande perdita; un viaggio attraverso me stessa tra il dolore e la comprensione della donna che sono (non compiuta), ma non ho usato il viaggio per superare quel dolore. E’ stata l'occasione di incontro con un altro luogo (il Brasile, la comunità, la palafitta) che sento come il centro del mondo, a cui io appartengo, voi appartenete. Il contatto con una dimensione più profonda, anche faticosissima. Viviamo in una società che ci bombarda di stimoli superflui, ma quando cessano inizi a pensare per tanto tempo, fa parte di una rieducazione. Rispetto il discorso della spiritualità che, per forza o per fortuna, ci serve per sopravvivere qui. Però se ci riposizionassimo da dove siamo venuti, con uno spirito più profondo, alla fine si ricorda ma si ritorna un po' ad essere quelli di prima”.
“Augusta è una donna che va via dalle proprie certezze - casa, famiglia, ecc. -, sulla linea femminile, sul modo di vivere e vedere certe cose; lo sappiamo perché il dolore è qualcosa di simbolico, un interruttore che ti fa scattare, che riesci a trovare nella disperazione e a stare ferma per ritrovare il modo di rigenerarsi, perché c’è qualcosa di primaverile anche nella maternità; e lo fa con le persone, inscindibile dal femminile, è simbolico. Sono contenta di interpretare una donna che racconta tutti noi, dell’incontro e del rinascere”.
“La montagna era l’idea di partenza del film – conclude l’autore -, una necessità tra la dimensione brasiliana e quella europea, la montagna e un posto di città, di rigore, erano importanti, per dare lo specchio della sensazione psicologica; intorno alla madre, la nonna, danno una dimensione della nostra infelicità, dal grigiore per aprirsi all'entusiasmo. Per le location siamo stati in Val di Susa, e abbiamo trovato nel Trentino tutti gli elementi che cercavamo, quel convento che sembra anche un po' un castello, al limite di una fiaba antica; le figure delle suore lì dentro che sembrano del passato ma sono di oggi, il calore umano gradevole ma stonato. Perché lo sfondo, quanto gli attori, è la vera chiave di lettura di un film”.
“Alla fine arriviamo a fare i conti con noi stesi – chiude -. Nel primo lancio verso il futuro della società c’è la maternità e la mancanza di maternità, il rapporto con quella più ampia delle relazioni umane, dove Augusta incontra altre figure di bambini e altre donne, una maternità più larga, al di là dei rapporti padre-figlio e madre-figli”.
José de Arcangelo
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