giovedì 28 marzo 2013

Un film che sfiora il capolavoro, "Come pietra paziente", opera seconda dello scrittore e regista Atiq Rahimi con Golshifteh Farahani

Ecco l’opera seconda dello scrittore e regista Atiq Rahimi, tratto dal suo romanzo “Pietra di Pazienza” (edito in Italia da Einaudi), premio Goncourt 2008, e sceneggiato con il grande Jean-Claude Carrière, storico collaboratore del maestro Luis Buñuel. Un dramma da camera, forse claustrofobico, ma lucido e coinvolgente, nonostante si tratti di una sorta di assolo di una donna, ma la sua voce ci rivela solo quello che il suo sguardo, i suoi gesti, il suo corpo non riescono ad esprimere. Quindi, è sbagliato pensare ad una messa in scena teatrale, anzi, Rahimi ‘indaga e scopre’ la condizione di questa donna, anzi di tutte le donne e in particolare di quelle afgane, attraverso un ritratto femminile sublime, trasgressivo, rivelatore. Il dramma di una donna che ritrova la libertà (totale), non solo attraverso un lungo monologo destinato al marito in coma, e a noi spettatori, ma anche tramite la scoperta di piaceri mai provati prima. Un’ora e quaranta minuti sostenuti dall’intensa interpretazione dell’attrice – bellissima anche senza un filo di trucco – iraniana Golshifteh Farahani, già vista e apprezzata in “About Elly”, “Pollo alle prugne” e “Just Like a Woman”; che ha recitato in farsi perché l’intero film è in lingua afgana e girato in presa diretta, ed è lei quella che svela la sua sofferenza, i suoi sentimenti e i suoi segreti più intimi. Infatti, Rahimi stesso confessa sulla ‘riscrittura’ del libro: “Filmando la parola come un atto e non come una trasmissione di informazione. Il cinema è la sola arte in cui è possibile mostrare contemporaneamente un’infinità di situazioni. La parola, ma anche il pensiero, i gesti. C’è una sequenza in cui la donna accarezza l’uomo: inizialmente il suo sguardo è rivolto verso l’esterno, poi si gira verso il volto di suo marito e gli dice: ‘Purché una pallottola vagante ti finisca!’. Questa frase crudele entra in contraddizione con la tenerezza del suo sguardo e del suo gesto. E così l’ambiguità dell’essere umano si rivela sullo schermo. In letteratura, avrei dovuto spiegare tutto e il testo avrebbe perso tutta la potenza suggestiva”. Ai piedi delle montagne intorno a Kabul, una giovane moglie accudisce il marito, eroe di guerra, in coma. La guerra fratricida lacera la città, i combattenti sono alla loro porta. Dopo aver portato i figli dalla zia, tenutaria di una casa chiusa, e aver scambiato con lei opinioni e riflessioni, la donna torna dal marito e pian piano ‘confessa’ al marito ricordi e rimpianti. Quasi costretta all’amore da un giovane soldato, contro ogni aspettativa, la donna si apre, prende coscienza del suo corpo, libera ancora di più la sua parola rivelando all’inerme coniugi segreti inconfessabili. A poco a poco in un fiume liberatorio tutti i suoi pensieri prendono voce: incanta, prega, urla e infine ritrova se stessa. L’uomo privo di conoscenza al suo fianco diventa dunque, suo malgrado, la sua “syngué sabour”, la sua pietra paziente, la pietra magica che poniamo davanti a noi stessi per sussurrarle tutti i nostri segreti, le nostre disgrazie, le nostre sofferenze… finché non va in mille pezzi. Ma dal punto cinematografico, sebbene il film si svolga soprattutto all’interno di una stanza, la macchina da presa non sta mai ferma, privilegiando i lunghi piani sequenza, e movimenti di macchina quasi impercettibili allo spettatore; e le immagini e le inquadrature a tratti di una bellezza abbaglianti sono firmate dal direttore della fotografia francese Thierry Arbogast. “La macchina da presa – dice il regista – è sempre con la donna, contrariamente alla voce narrante del romanzo che non lascia mai la stanza e l’uomo. Nel libro, il narratore è paralizzato tanto quanto il marito. Nel film, ho voluto stare con la donna, sempre al suo fianco”. Certo, non si tratta di una pellicola di intrattenimento, ma di un dramma che sfiora il capolavoro, il cui riferimento è principalmente il Roberto Rossellini di “Germania anno 0”, ma anche il Bergman di “Sussurri e grida”. E sul suo personaggio, l’attrice dichiara: “Bisogna considerare questa donna come un individuo a tutto tondo. Non è tutte le donne, è questa donna. L’immagine che rimanda è lontana da quella comunemente riconosciuta della donna musulmana, debole, silenziosa, sottomessa…. Lei è l’esatto contrario: una donna, dell’Afghanistan o di qualunque altro paese, che decide di agire. Atiq mi chiedeva sempre: ‘Madame Bovary rappresenta tutte le donne francesi?” Certo che no, ciascuna può riconoscersi in lei e lo stesso avviene in ‘Come pietra paziente’. La conoscenza che abbiamo della Francia ci permette di coglierne tutte le sfumature, mentre in Iran o in Afghanistan, purtroppo quest’operazione non è possibile e quindi ne scaturisce una sola immagine. Il film di Atiq capovolge lo sguardo”. Nel ridotto cast di questa coproduzione tra Francia, Germania e Afghanistan, anche Hamidreza Javdan (l’uomo), Massi Mrowat (il giovane soldato) e Hassina Burgan (la zia). José de Arcangelo (4 stelle su 5) Nelle sale dal 28 marzo distribuito da Parthénos

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