martedì 12 marzo 2013

Un inedito Giuseppe Tornatore nel documentario "Ogni film un'opera prima" di Barcaroli e Panichi il 18, 19 e 20 marzo nelle sale The Space Cinema

“Giuseppe Tornatore Ogni film un’opera prima” di Luciano Barcaroli e Gerardo Panichi è un documentario diverso, perché nonostante sia dedicato ad un autore cinematografico anziché osannare il regista e basta, ‘indaga’ attraverso la sua testimonianza – e quella dei suoi collaboratori - sul suo lavoro e sulla sua poetica, personale e universale. Il film, presentato in anteprima al Festival Internazionale del Film di Roma approda in tutte le sale (almeno trenta) The Space Cinema d’Italia (a Roma all’ex Moderno) il 18, il 19 e il 20 marzo. Alla presentazione stampa nella capitale c’erano i tre registi, Tornatore e la coppia di documentaristi Barcaroli-Panichi. “Abbiamo contattato Tornatore quando aveva appena terminato ‘Baaria’ e si accingeva a scrivere il successivo (“La miglior offerta” ndr.), in una di pausa di riflessione dopo aver chiuso un ciclo. Eravamo molto curiosi di capire cosa gli passasse per la testa, scoprire il fil rouge che univa le sue opere, cosa fa quando è in piena attività. Avevamo la curiosità di affrontare il suo cinema, e un cineasta italiano, dopo aver realizzato documentari e libri su filmografie estere, da Terrence Malick a Otar Ioseliani e Paradjanov”. “Ci è sembrato subito interessante affrontare un regista riconosciuto a livello mondiale – ribatte Gerardo Panichi -, un vincitore dell’Oscar, di risonanza mediatica molto forte, un ‘oggetto’ curioso di cui si è parlato tantissimo, ma in realtà pochissimo della sua opera. E’ stata una sfida realizzarlo, attraverso incontri molto lunghi, in cui Tornatore ci ha raccontato moltissimi episodi, anche divertenti, del cinema italiano, su Cristaldi, Lombardo; dall’interno ci ha parlato del loro cinema così importante negli anni ‘50 e ’60. Un mondo fantastico attraverso racconti, storie, esperienze. Siamo soddisfatti di averlo fatto, di aver finito un progetto, un'esperienza davvero bella”. “Di solito viene qualcuno per chiedermi un’intervista – ribatte l’autore di “Nuovo Cinema Paradiso” -, negli ultimi tempi per una tesi di laurea o un corto video su cui fare l’intervista. Io sono abbastanza generoso, ma non molto quando si tratta di interviste di tipo biografico. Un motivo per cui accettai questo film era il fatto che non aveva l’intenzione di essere soltanto celebrativo, fatto che cerco di evitare; loro due invece erano mossi da una curiosità critica, era la sola prospettiva per partecipare, anche perché non amo le interviste in cui ti anticipano le domande, non voglio saperle prima, lo faccio solo se costretto nel caso di un’intervista per scritto. Non voglio mai conoscere le domande prima, preferisco il rischio, anche se magari poi mi fanno una sorta di conclave”. “Sono stato colpito dal tipo d’approccio che proponevano – prosegue -, da un impianto produttivo d’accordo con Stile Libero (i produttori ndr.), per avere immagini di repertorio dei miei film. Hanno voluto che io aprisse a loro il mio archivio in super8 - non tutto però -; di aprire le scatole delle foto che avevo fatto da ragazzo. E mi sono lasciato sedurre dalle loro simpatia e complicità, una strategia che mi ha spinto ad accettare. Mi seguivano ciclicamente, facendo frammenti di intervista, ora due ore, dopo tre mesi un'altra volta; poi sono andati a trovarmi dove mi chiudo per scrivere, e alla fine mi hanno fatto dire tutto, anche cose che non amo raccontare per pudore, o che per tenerezza non mi va di dire. Hanno avuto grande attenzione e mi riconosco in buona parte; rispetto ad altri il loro documentario mi sorprende. Sono riusciti a far dire ai miei collaboratori cose di me che non avevo pensato mai, inoltre mi sembrava troppo presto fare un documentario sul mio lavoro. Tanto che al festival di Roma mi ha un po’ impressionato, perché di consueto il documentario su un regista si fa a fine carriera e io non mi sento ancora alla fine. Ne vengono fuori cose di me che non avevo capito fino in fondo. Loro parlano del rapporto col cinema, si concentrano su un personaggio, amano tutto quello che ha fatto e per 3/4 anni si dedicano ad un autore. Ma il loro approccio è insolito, perché di consueto amare tutto si traduce in imponenti atteggiamenti di superficialità. E Stile Libero ha concesso loro i mezzi che spesso non si hanno per un approccio non timido, e sono contento dell’esperimento di The Space Cinema, di rendere la sala più articolata nell’offrire prodotti diversi al pubblico, soprattutto il documentario, poi su un regista succede molto raramente. Mi diverte, mi piacerebbe vedere cosa succede, la gente che lo vorrà vedere”. “Sulle varie componenti del mio carattere e il rapporto col mondo sono la persona meno adatta a parlarne – prosegue alla domanda su se stesso -, non l’ho capito fino in fondo nemmeno io. Una certa complessità del mio carattere la riconosco, in più sono un gemelli, spesso contraddittorio, in fondo ‘l'arabo calvinista’ mi sta bene (la definizione è di Ben Gazzara ndr.). E’ curioso. Detesto le infatuazioni, amo invece il modo di incubare le idee che mi piacciono, cerco di star in guardia. L’idea nasce in un momento e ti conquista subito, ti dà energia e ti spinge a farne subito un film. Una volta mi è andata bene, ma in genere diffido, cerco di non scriverla subito o di cercare alleati per farlo, la porto con me a lungo. Tempo dopo vedo se ancora mi piace, se riempie sempre le mie giornate; altre volte, infatti, svanisce. Una volta mi piaceva quella storia ma, forse, non abbastanza”. “Leningrado – parla del suo ambizioso progetto – ha avuto una lunga incubazione dal 2000 al 2005, poi il film non è partito, sono andato avanti facendo altri; poi tornai ad occuparmene perché sembrava possibile realizzarlo, dopo i contesti fallivano un’altra volta. Mi piace ancora moltissimo ma ha preso molti anni della mia vita, visto che ne sto ancora a parlare, però non è sicuro. Voi siete bravi a farmene parlare a distanza di 13 anni. Io a pensare come spendere meno, come usare il digitale per l’effetto realistico, ma il film ha dei problemi enormi, insormontabili, forse per questo non ne sono sicuro. Però mi piace ancora”. “Tutta la faccenda di Leningrado va avanti da tre anni – confessa -, nasce perché il produttore un giorno, forse per entusiasmo di trasmettere a me la sua serietà, lo annunciò a Cannes, tanto che tutti hanno creduto stesse già girando ‘Leningrado’, invece ci stiamo ancora lavorando, non è sicuro. Lo posso dire mille volte, poi voi o chi per voi (si riferisce a giornali e giornalisti ndr.) tagliate l’ultima frase. Non c’è niente di più vago della pre-produzione. Sì ti incontri col produttore, invece, non hai ancora il ‘via’, magari fai i sopralluoghi, cerchi gli attori. Infatti, ho fatto moltissimo scegliendo una parte del cast, ma poi il film è saltato ancora. Mi sono rimesso con Avi Lerner, abbiamo deciso dove girare - in parte in Bulgaria -, un po' di cose rientrano strada facendo, ma non ho un ufficio dove vado tutti giorni, siamo in un contesto molto vago. Dei film non bisogna mai parlare prima né parlarne troppo, sennò diventa difficile realizzarli, porta iella. Non è sicuro che sia il prossimo, tanto che se dovesse saltare ancora deciderò di non farlo più, riscriverò la sceneggiatura in forma letteraria. Nell'arco di quest'anno, sto già lavorando ad un piano B del quale però non dico niente”. Di tornare al film di genere, del tipo dell’opera prima “Il camorrista”, invece dice: “Ho pensato più volte, ma i produttori hanno paura. Il soggetto incuriosiva molto, l’avevo scritto prima dell’arresto Totò Riina, avevo una storia di fantacriminalità, è stato molto curioso, ma il produttore non lo amò. Un paio di volte ho proposto cose del genere ma non andarono in porto, però non è detto che non accada in futuro. Un giornalista tanto tempo fa, mi chiese ‘perché non fa un film sulla mafia?, e io rispose ‘Perché non ho ancora un’idea’. Il giorno dopo il titolo del pezzo sul giornale era: 'Tornatore: mafia dammi un'idea'.” Sulle versioni originali in un’altra lingua, Tornatore spiega il suo punto di vista. “Dirigere un attore nella mia lingua o in un’altra lingua sono fatiche e approcci diversi. Il francese (‘Una pura formalità’) e l’inglese (‘La miglior offerta’), sono esempi di quando la lingua diventa copione. Il francese lo parlo malissimo ma lo capisco, l'inglese lo parlo e lo capisco. Gérard Depardieu rideva come un matto perché gli facevo calibrare le parole, le frasi, e poi quando mi chiedeva ‘viene a cena con me’, mi facevo tradurre quel che aveva detto. Di ‘La miglior offerta’ nessuno conosceva il copione come me, ma quando devi doppiare diventa complesso, in genere viene delegato ad altri, ma stavolta sono stato io stesso l’adattatore o ri-adattatore, non riesco a delegare. In quei casi è divertente, hai dei doppiatori a disposizione, e rimettere il personaggio è molto interessante, perché il doppiaggio consente tante cose che, a volte, la presa diretta non consente”. “Non amo far riprendere sul set, ma un giovane mi chiese vorrei riprendere sempre tutto per farne un backstage – chiarisce su una riunione di pre-produzione di “Una pura formalità” -, e infatti riprese tutto ma poi il documentario non venne fuori. Loro, però, ti chiedono una cosa per volta e alla fine scopri di aver dato loro tutto. In questo caso, si trattava di aprire uno scatolone, per poi venire a chiedermi se potevano usare il materiale. Il film era molto complesso farlo partire, avevo avuto una folgorazione e un’energia da metterlo su in due mesi, anche se dicono di me ‘ci mette sempre tanto tempo e alla fine sfora’, io non mi sento per niente lento. Quello era un momento in cui la produzione aveva avviato il film, ma non troppo, tanto che i collaboratori avevano cominciato a lavorare ma non venivano opportunamente retribuiti, e in quel momento non sentivo la (loro) complicità, era una pausa di crisi ma, dopo molte esperienze insieme, la complicità è più forte. Loro hanno voluto utilizzare quella sequenza di perplessità, per far vedere cosa succede dietro le quinte di un film. Infatti, a volte bisogna litigare per poter partire”. “Era un periodo complesso a monte – continua -, perché venivo da due progetti non partiti con Cecchi Gori a cui ero legato con un contratto per tre film, ma non se ne faceva nessuno. Io dicevo ‘quello che piace a me, non piace a voi, ma dobbiamo fare un film insieme, trovare un metodo per riuscirci e tener conto che ognuno di noi deve rinunciare a qualcosa. ‘Qual è il massimo che sei disposto a perdere per me?’, gli chiesi, e Cecchi Gori rispose: ‘4 miliardi’, e io ‘Purché non superi quella cifra, non devi sapere che film è’. Era a costo bloccato ma deciso da lui e 4 miliardi erano sotto la linea. Poi quando l’ha visto mi ha detto: ‘non ci ho capito un c… ma è un grande film’. Andò malissimo soprattutto perché a Cannes era stato maltrattato, ma il primo pomeriggio di settembre cominciai ‘L'uomo delle stelle’”. “Avevamo pensato di chiamare il documentario ‘Lo sconosciuto’ – confessa Panichi, parafrasando uno dei suoi ultimi lungometraggio -, per la passione e la determinazione di Tornatore, visto che si pensa sia uno che dimentica tutti i passaggi, invece è la sua passione per il cinema, per l’immagine che abbiamo voluto restituire”. “Ogni volta per vari motivi abbiamo tentato di fargli ripetere una risposta – ribatte Barcaroli – ma non la faceva mai come la prima volta; cambiava tono, sembrava annoiato; con lui non si ripete, è buona la prima, sempre”. “Il film non convince i produttori, è complesso, ‘è saltato il secondo film per Cecchi Gori, un altro film che ha fatto saltare – dicevo, continua il regista - è lui che l'ha fatto saltare’. Fellini, invece, mi diceva non importa quanto possano essere vere le spiegazioni tradizionali, quando un film salta la colpa è del regista e basta; i film bisogna farli anche quando non si è convinti, perché esistono solo quelli che si fanno’. La partecipazioni delle Film Commission è positiva – aggiunge sugli odierni accordi di produzione -, anche per i mezzi che offre, non solo per le bellezze paesaggiste, perché rende possibile realizzare anche un film in Russia, aiuta ad abbassare i costi, non solo divulgando le bellezze di Torino (a proposito della partecipazione assidua della Piemonte Film Commission ndr.), il mondo del cinema sa che può girare li o altrove. E’ una realtà importante, peccato che ora siano state quasi tutte azzerate, perché aiutano molto i film. Ma sono state messe in ginocchio, uno dei tanti schiaffi inferti al nostro cinema”. “Stavo girando ‘Una pura formalità’ al Teatro 5 – riprende a proposito delle foto insieme a Fellini -, si faceva solo questo film, negli altri erano tutti quiz televisivi. Fellini aveva finito di ipotizzare uno dei block notes sull'attore per Rai3 – un progetto che credo si fosse arenato -, il suo ufficio era stato chiuso ed era venuto a riprendersi le carte. Da Pietro Notarianni, il produttore esecutivo, sapeva che giravamo con Polanski, Depardieu e Rubini. Mentre giro una scena, avverto un’ombra con la coda dell’occhio, davanti al ‘commissariato’ della finzione. Alla conclusione della scena do lo stop, ma non ho l’istinto di girarmi, e lui disse: ‘sembrate un drappello di soldati giapponesi a cui nessuno ha ancora detto che la guerra è finita!’ E’ rimasto un po' con noi, è stata l’ultima volta che l’ho visto, Notarianni, invece, lo vide ancora”. “Ho scoperto qualcosa di me – conclude sul documentario -, visto che tutti mi considerano un essere chiuso, uno che non si apre facilmente, blindato, non generoso, tanto che mi ero convinto anch'io. Il documentario, invece, fa vedere che non sono così, grazie alla loro strategia, mi piacciono proprio perché sanno come conquistare la fiducia, e mi hanno fatto raccontare cose che non amerei raccontare, anche dei difetti, di rispondere dopo pause eccessive, anche se io le avrei tagliate tutte!” Gli intervistati nel film (in ordine alfabetico): Monica Bellucci, Sergio Castellitto, Massimo Di Rita, Laura Fattori, Ben Gazzara, Giuseppe Giglietti, Blasco Giurato, Tonino Guerra, Leo Gullotta, Giampaolo Letta, Margaret Madè, Mario Morra, Ennio Morricone, Cesarina Marchetti, Massimo Quaglia, Ksenia Rappoport, Tim Roth, Sergio Rubini, Geoffrey Rush, Maurizio Sabatini, Francesco Scianna, Dante Spinotti, Harvey Weinstein. José de Arcangelo

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