lunedì 30 settembre 2013

Un come eravamo della famiglia italiana negli anni Settanta, nel film "Anni felici" di Luchetti

Un come eravamo dei rapporti (di coppia) negli anni Settanta, attraverso i ricordi di un ragazzino (l'autore stesso) nel nuovo film di Daniele Luchetti "Anni felici", dal 3 ottobre al cinema, distribuito da 01 in oltre 250 copie.
Roma, 1974: Guido (Kim Rossi Stuart) è un artista che vorrebbe essere d'avanguardia, ma si sente intrappolato in una famiglia troppo borghese e invadente. Serena (Micaela Ramazzotti), sua moglie non ama l'arte, ma ama molto l'artista e infatti lo "invade", mentre i figli Dario (Samuel Garofalo) e Paolo (Niccolò Calvagna), di 10 e 5 anni, sono i testimoni involontari della loro irresistibile attrazione erotica, dei loro disastri, dei loro tradimenti ed eterne trattative amorose. "Il film l'ho fatto, se vogliamo, anche per delle ragioni commerciali - esordisce Luchetti alla presentazione stampa romana -, visto che la pellicola muore, e questo è forse l'ultimo realizzato in 35mm. La pellicola ha accumulato storia per oltre cent'anni, la sua pasta è il cuore del cinema, e non è più leggero come ci vuole oggi, ma stiamo buttando nella spazzatura un cosa preziosa per noi. I miei erano filmini (da ragazzino con il super 8 ndr.), fotografie, che oggi ho fatto riversare, li abbiamo guardati, ma non ci sono nel film. Ne abbiamo fatto degli altri".
"Questo personaggio quando l'ho letto sulla carta c'era già tutto - dice Micaela Ramazzotti, la protagonista -, c'era solo il rischio di rovinarlo. Una donna molto complessa, contraddittoria, un tipo di matta responsabile, apparentemente un po' mamme zoccole, emancipate e bigotte al tempo stesso, ma che all'improvviso si rivelano deboli e devote. Hanno una ferita dentro, problemi psicologici, lei è insicura, affronta l'amore in modo infantile, di continuo ricatto. Un 'gioco' infernale e ricattorio di cui gli spettatori sono i bambini. Sono partita dallo sguardo della madre di Daniele, ma abbiamo parlato molto poco, ci siamo guardate, all'inizio con diffidenza poi ci siamo capite. Ho cercato qualcosa nelle foto, in quella profondità dai tanti lati contraddittori, per cogliere l'attimo in cui quella scena arrivi lì, perché è un personaggio che deve nascere e crescere lì. Tra un ciak e l'altro, Daniele mi faceva cambiare. Diceva 'deve essere come fosse sempre la prima volta, Serena (la madre ndr.) è dieci donne assieme. Siamo partiti da qui, poi man mano, Kim e io, diventavano Guido e Serena (i genitori ndr.), tanto che finiva per chiamarci 'Guido e Serena'. E' forse la prima volta che si parla di adulterio, perché la protagonista tradisce e c'è la sofferenza, l'angoscia, la paura di una donna. Ci sono tanti lati di Serena. Chi è veramente, che vuole lei dall'amore? Che è libera veramente, credo lo dimostri fino alla fine".
"Ultimamente è più difficile che in passato trovare proposte di film particolarmente interessanti - ribatte Kim Rossi Stuart -, quando Daniele mi ha proposto questo ruolo sono stato assolutamente felice, non ho fatto l'analisi del personaggio, perché mi piaceva il suo cinema. Ho accettato la sfida di un personaggio cui sulla carta non se ne spiegavano moltisimo le sue ragioni, ma casomai correva il rischio di diventare monolitico, perché non aveva una parabola, e ho deciso di lavorare su questo aspetto, situazioni estreme di caratterizzazione per creare chiaroscuri, anche col rischio di diventare respingente. Mi interessava la leggerezza degli ultimi film di Daniele; drammatici però con una certa lievità, e così attaccarmi a questa cosa e portarla all'estremo, cercando una comicità quasi spontanea. Daniele poi l'ha rimodellato e dato la giusta misura, e ha girato tanto materiale da ricavare veramente tanti film diversi. Questo tipo di lavoro è molto stimolante per un attore, perché ti dà la possibilità di ricercare sul set, lavorare sulla stessa inquadratura. E la felicità va ricercata nei momenti duri".
"Il bambino (Dario) sono io, ma i fatti sono immaginari - confessa Luchetti -, la verità sta nel mezzo, altrimenti non avrei fatto un film. Il rapporto con mio padre, era stimolante; quando ho fatto i primi film, io avevo 28 anni e mio padre 48, era ancora giovane, e in questo caso c'era un senso di collaborazione e complicità, uno stimolo verso la libertà espressionistica e artistica, che si è ripercosso su mia madre. Ho detto a mia madre: 'chiarirò che i fatti sono quasi tutti inventati', e lei mi ha risposto: 'tu sei l'artista e sei libero di esprimerti'. Lei sa quello che è vero e non la preoccupa, credo avrà una nuova vita erotica. E' una storia molto delicata, un atto d'amore all'umanità dei miei genitori, che ci hanno fatto vivere le loro passioni. Quando non siano in grado di capire il passato, non possiamo pensare al futuro. Io sono curioso del passato e ho nostalgia del futuro. Ho fatto il film per riguardarlo con curiosità, anche inventando cose, per capire meglio. Il mio desiderio era, appunto, quello di capire quello che i miei hanno avuto e quello che non hanno saputo vivere fino in fondo".
"Per il personaggio della gallerista tedesca (con cui Serena scopre la libertà, non solo sessuale ndr.) sono stato spinto dal fatto che i vicini della villa di Fregene avevano una baby sitter tedesca che si chiamava proprio Helke. Io avevo 6 anni, credo, lei era bellissima e disinibita, e mio nonno, che la guardava, si prendeva degli schiaffi da mia nonna, ma non mi ricordo nemmeno come era vestita. Per il casting sono andato a Berlino, e Martina (Friederike Gedeck) mi ha convinto sul momento, era calda, affettiva, estremamente accogliente, e in grado di ascoltare Serena per la prima volta. Ha uno sguardo empatico, è un'attrice che ogni volta che vedo un suo film per me è sempre festa".
"Per me è stata invece l'occasione d'incontrare un grande regista come Luchetti - ribatte la Gedeck -, ero molto curiosa di conoscerlo, tutti i suoi film sono vivaci, diversi di tutti gli altri italiani. Quando ho letto il copione ho capito che si trattava di un film sull'amore senza costrinzioni, dove nessuno è prigioniero dell'altro. Ho cominciato a riflettere perché si tiene sempre l'altro appiccicato a sé, come fosse una stanza da cui non si può uscire da noi. Per me è stato interessante lavorare con un giovane, col desiderio di offrire un'altra visione della vita. Helke simbolizza questo grande cambiamento nella vita, la libertà, il capovolgimento, è il bello di questa figura. Un lavoro molto libero, intenso, ho fatto di tutto perché Daniele non si annoiasse". "Penso che la libertà è qualcosa a cui aspiriamo tutti - ribatte Stuart -, forse non esiste, è un qualcosa che ci spinge a fare le cose. Ho un ricordo vago di quelli anni (sono nato nel '69), ricordo un sacco di tossici e non so che tipo di libertà sia quella, un desiderio di libertà che esplodeva anche attraverso la violenza. Sinceramente non riesco a collocare la libertà a qualcosa che coinvolge l'essere umano fin dalla nascita, forse oggi c'è più la violenza, ma non credo ci sia meno libertà di allora.".
"Ho visto gli anni Settanta nei film - afferma la Ramazzotti -, me li hanno raccontato, sono nata nel '79. E la riflessione su quelli anni la sto vivendo con questo film, ho notato la differenza nell'educare i figli, forse, ci si dava meno peso, erano meno capricciosi, sennò erano botte; perché oggi si rischia di avere dei piccoli imperatori. Non siamo più quei genitori, oggi i figli hanno più libertà. Ma comunque, quelli di allora, sono cresciuti bene credo, vero Daniele?" "Non andare al Lido non credo sia stata una scelta così rivoluzionaria - dichiara il regista sull'aver preferito di andare oltreoceano -, in passato ero stato sia a Toronto che a Venezia. Le proiezioni a Toronto sono più serene, puoi andare a piedi dall'albergo alla sala, ricevi pacche sulle spalle e strette mano, attorno al film non c'è l'aria sontuosa e solenne di Venezia, dove è una sorta di rito sacro che finisce con gli applausi regalati a tutti i film. E' una questione di tranquillità e calma, e una presenza maggiore del mercato internazionale, c'erano 400 compratori alla proiezione. La vera scelta, al di là di quella commerciale, è un'atmosfera più easy, puoi andare in jeans. A Venezia mi cacavo sotto, ero come anestetizzato, stavolta ho fatto salvaguardia della mente".
Poi sul lavoro con i piccoli protagonisti, dice: "I bambini non si possono dirigere, devi scegliere bene, i più simili a quello che hai immaginato, ma nella realtà sono già così. Il segreto è non dirigerli". "I rapporti tra mio padre (era un'artista, uno scultore ndr.) e la critica erano un incubo, lui non aveva il coraggio di esporre, finché ad certo punto decisse di fare una performance, perché era in contatto con una critica che conosceva Bonito Oliva. Così organizzò questa cosa nel suo studio di Trastevere, arriviamo a confronto con Guido (il personaggio del film), noi eravamo tranquilli, ma attendemmo più di due ore e Bonito Oliva non arrivò. E la critica, candida, disse 'Ma come non l'avete chiamato? Facciamola lo stesso'. Questa è stata la fine del rapporto tra la critica e mio padre. Forse è stata un'occasione mancata, sono difficoltà di percorso. Un dialogo è importante (tra critici e artista ndr.), ma mio padre era un po' chiuso. Nei miei riguardi, se vi è piaciuto il film, in parte l'ho raccontata qua. Prima gli aveva detto 'hai fatto una cazzata', mentre dopo gli dice 'hai fatto molto meglio perché l'hai sentito'. Per quanto mi riguarda, ascoltare il mio amico è sbagliato, perché non ti dirà mai che non gli è piaciuto. E' più importante il parere del pubblico, del passante, che ha però un'immagine variabile. Poi ti trovi a dover essere sempre Luchetti, ma ormai ho un'età e le spalle pronte a qualsiasi atrocità, tanto che le critiche, ad un certo punto, le ho messe da parte. Se fai film devi essere istintivo, sennò fai un film 'alla'. Vanno prese con distacco altrimenti può influire sul tuo lavoro".
"La caratteristica del film è di affetto verso quello che racconta - afferma Petraglia, uno degli sceneggiatori -, ambientato un momento prima del terrorismo, anni crudeli e drammatici; durante un'estate fatta di poche asprezze, il discorso critico è la materia morbida del film. A me piace tantissimo come gli attori hanno gestito le parole. L'abbiamo raccontato con rispetto, con affetto, prendendo in giro l'arte, un pochino anche col critico, che rileva nella performance la freddezza, perché costruita". "Abbiamo lavorato molto sugli stereotipi - ribatte la collega Caterina Venturini -, il critico ha un aspetto segaligno, dai tratti quasi aguzzi, l'immagine della potenza del pensiero. Daniele ha le idee molto chiare, voleva una persona calda che avesse delle ragioni, un po' tradendo quella specie di inimicizia". "Il personaggio non è esterno - aggiunge Rulli, il terzo sceneggiatore col regista -, allora sono stato critico, e so che in certe durezze, nelle forti polemiche c'è grande passione. Al tempo di Ombre Rosse dagli autori italiani c'erano grande aspettative e delusioni, poi arrivava Anghelopoulos con 'La recita' e... C'è un fondo di grande onestà nelle stroncature, nel raccontare un periodo stranissimo in cui si sovrapponeva una veridicità di tipo ideologico e la necessità di vivere altre esperienze che porta qualcosa di nuovo ad una casalinga. Eravamo un po' preoccupati perché il protagonista è un artista d'avanguardia, abbiamo avuto rispetto per i personaggi e per le loro contraddizioni, perché avevano anche una grande vitalità. Rispetto agli anni '50, la novità era quella libertà che rendeva tutto quanto più libero: l'amore, i rapporti sessuali e umani".
"Quando abbiamo avuto il primo figlio, che oggi ha 13 anni, ho comprato tutti i manuali possibil. Loro, negli anni Settanta, spaccavano un'educazione che era formalizzata, che si subiva basta. Ho vissuto il momento in cui volevano trasformarla, ma sempre un rischio perché devi bilanciare istinto e cultura. Lo sento nei confronti di mio figlio che cerco di trattarlo come amico, come a mio padre. Invece la mamma di mio figlio, mi dice 'non è un amico tuo'. Questo me lo porto dietro, cerco di fare il padre autorevole, ma non ci credo. Lo lasciarei stare al compotur tutto il giorno, anche perché lui non voleva nemmeno uscire da solo. Era un tipo educazione che tendeva a tenerti all'oscuro di quello che succedeva". "Il matrimonio è una scelta esistenziale, romantica - riprende la Ramazzotti -, ci si sposa anche adesso, forse meno; ma allora c'era quella libertà, oggi siamo più bigotti; su questo andare e rientrare c'era meno peso". "Infatti allora si diceva al partner, per giustificare il tradimento, 'Non ti preoccupare è stato solo sesso'". "Io sono figlio di genitori separati, cosa inconsueta allora - ribatte Kim -, oggi ci si sposa e ci si separa quasi a livello sportivo, con facilità immensa; in questo senso la famiglia ha perso unione, forza. Io non faccio distinzione fra matrimonio e famiglia, quello che unisce è mettere al mondo dei figli, infatti, per alcuni va di pari passo".
"Baciare Martina è stato come rientrare a casa - chiude l'attrice -, come abbracciare te stesso, è una sorta di grande mamma, morbida, forse, a volte sul set è più facile con una donna". José de Arcangelo

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