mercoledì 2 ottobre 2013
Tre adolescenti in viaggio per raggiungere "La gabbia dorata" degli Stati Uniti d'America nel film di Diego Quemada-Diez
Una sorprendente opera prima in raro equilibrio tra documento e finzione che trova ispirazione nel cinema di Ken Loach e nel neorealismo italiano per offrirci la contemporanea odissea di tre adolescenti dei quartieri poveri del Guatemala. Tre giovani che cercano di raggiungere gli Stati Uniti d'America, alla ricerca di una vita migliore, ovvero proprio quella "Gabbia dorata" che dà il titolo al film di Diego Quemada-Diez, preso in prestito da una canzone dei Tigres del Norte, band messicana famosa negli Usa. La meta viene definita "La jaula de oro" perché il migrante ci va per il denaro, ma poi non può più uscirne, e 'non vuole' per poter mandare soldi alla famiglia. Lo spiega il regista stesso, di passaggio a Roma per presentarlo alla stampa, prima della partecipazione - domani giovedì 3 ottobre - al VII Festival di Internazionale a Ferrara, in occasione della serata 'speciale cinema' che segna una delle novità di questa edizione.
"Se avessero contratti periodici - esordisce l'autore, per esempio di sei mesi, tutto questo non accadrebbe, ma non c'è una regolarizzazione, regnano la totale illegalità e l'ipocrisia. Confesso che il cinema italiano mi è stato di grande ispirazione, soprattutto il neorealismo italiano, Pasolini, di cui leggo ancora i libri, i film di Elio Petri, Gillo Pontecorvo, "Il cammino della speranza" di Pietro Germi. Sono contento e orgoglioso che il mio film esca in Italia".
Infatti sarà nelle sale dal 7 novembre distribuito da Parthénos, ed è stato già premiato al 66° Festival di Cannes - Un Certain Regard, con A Certain Talent Prize e il Premio Gillo Pontecorvo; e anche al 43° Giffoni Film Festival col Grifone d'oro per il miglior film, il Grifone di Alluminio Cial per l'Ambiente e il Grifone di Cristallo della Banca di Campania.
"Ho provato a trovare soldi a Hollywood - prosegue -, ero ancora ero a Los Angeles, dove avevo già fatto un corto ("Quiero ser piloto") premiato, e tutti i produttori mi chiamavano per sapere cosa avrei fatto dopo, ma quando parlavo del progetto del film anziché con attori con veri immigranti, dicevano 'tu no hai un nome, né gli attori e nemmeno i produttori', tanto che qualcuno mi ha proposto la voce off di Salma Hayek, mentre io volevo dare voce a loro stessi".
"Poi ho cercato finanziameni in Messico, dove mi sono trasferito, e lì per fortuna c'è un sostegno alla cultura, un aiuto per il cinema. Comunque, ho parlato con cinque produttori diversi sull'argomento, ma tutti consideravano il progetto pericoloso, visto che volevo fare il viaggio davvero con emigranti veri. E' stato complicatissimo, perché abbiamo più di cento location, ed è interamente interpretato da non professionisti. Questo fatto terrorizzava tutti i produttori, avevano paura delle bande, ma io conosco i luoghi pericolosi, i leader delle zone, so come arrivarci; nella realtà non era poi così pericoloso come poteva sembrare".
"Per trovare gli attori protagonisti nella zona 3 di Città del Guatemala - continua -, per poter entrarci e fare il casting, dovevo contattatare il capozona, e scoprire perché la gente se ne va, e spiegare qual era la mia intenzione. Dopo aver capito il mio obiettivo mi hanno detto 'vogliamo farne parte, aiutare' e ci aprirono le porte. Hanno lavorato nel film, così come abbiamo dato lavoro alla gente dei paesi dove passavamo. Tutti gli altri sono emigranti in cammino verso gli Usa, considerata 'la trappola', appunto. Devi parlare con i capi di ogni zona, spiegare perché sei li e perché lo fai. La vicenda nella zona di Vitamina (soprannome di un finto migrante che inganna quelli veri portandoli da feroci trafficanti di uomini e donne ndr.), accadde anche a me a Sinaloa, uno mi ha puntato la pistola alla tempia, anche se conoscevo un boss locale. Mi disse 'se non ti vuoi far ammazzare, la prossima volta devi parlare prima con me. E mentre giravo un documentario c'era qualcuno che si chiamava Vitamina, perciò io volevo i protagonisti di quella zona".
"Nella fabbrica (americana del finale, dove si fanno le confezioni di carne per i supermarket ndr.) sono tutti immigranti veri. La canzone degli emigranti - confessa - è sorta grazie alla montatrice, cerco sempre persone interessanti con cui collaborare, perché ti offrono stimoli creativi per far la miglior pellicola possibile. Io cercavo un son, e lei mi ha proposto questo in cui c'erano donne che cantavano. I protagonisti sono orfani, ma la canzone è stata una scelta intuitiva, perché si tratta di donne che parlano della perdita, del cammino, della ricerca, della terra, temi universali che fanno parte della vita. Ma dobbiamo compartire, tutti cerchiamo qualcosa fuori di noi, un luogo, però quando l'abbiamo raggiunto, vogliamo un altro posto dove andare. La fine del viaggio diventa come Itaca, perché l'appredimento è nella vita di ogni giorno, il destino non è importante, ma il cammino che fai. In questo caso il luogo c'è, ma si rivela una trappola, gli Usa".
"A livello legale la questiona della frontiera è complessa. La realtà è che ci sono paesi, documenti, bandiere, visti per i ragazzi, permessi per poter lavorare in Messico e negli Usa. Per le riprese nella frontiera abbiamo cercato di parlare con l'immigrazione, ma non hanno voluto aiutarci. Poi un amico, un ragazzino, ci ha fatto vedere il tunnel dove aveva attraversato, seguito da un altro muro, un altro tunnel, una zona pantanosa, e infine una zona residenziale. Sembra un vero campo di concetramento, così abbiamo riprodotto il passaggio tutto sul lato messicano, ma in posti diversi. Comunque, è sempre la stessa situazione fascista, la militarizzazione, il disprezzo della persona. Perciò ho voluto mettere in discussione le barriere sociali, nazionali e razziali. Siamo tutti uguali, abbiamo tutti le stesse esigenze, lo stesso sogno di una vita migliore. La migrazione è un fenomeno naturale, mentre i confini sono artificiali, sono stati creati dagli esseri umani in tempi relativamente recenti".
"Il protagonista, Brandon (Juan), la sua vicenda è presa in parte dalla finzione e in parte dalla realtà, quello che lui vuol essere, può funzionare o no. Però per lui l'eroe è Eminem, il tema del cowboy, del conflitto tra indiani e rancheros, viene soprattutto dal processo di colonizzazione negli Usa, dallo sterminio di una cultura, dalle persecuzioni. Alcune storie sono prese dalla realtà, i miei riferimenti, invece, sono il western 'Shane' (Il cavaliere della valle solitaria) di George Stevens (1953), 'L'imperatore del Nord' (di Robert Aldrich) - per la scena della gallina -, e soprattutto il cinema di John Ford. Infatti, lui sceglie di vestirsi come Shane (prima avevo messo una clip, poi l'ho tolta). Era una pellicola di cowboys, ma anche un poema epico sul viaggio, sul paesaggio, perciò il treno. Loro (i veri protagonisti ndr.) non erano immersi in quel mondo, ma entrarono in quella dimensione. Ho fatto vedere al protagonista 'Shane', ma non gli è interessato molto. Io, invece, ho conosciuto un emigrante che portava sempre gli stivali da cowboy, infatti, ho messo nel film tutto questo nella parte della finzione".
"Tutto quel che accade nella pellicola me l'hanno raccontato, l'ho visto o è successo - prosegue -; una ragazza chiamata Sara (come la ragazza protagonista ndr.) aveva fatto il viaggio con la madre a 12 anni. La donna le aveva tagliato i capelli, messo una benda sul seno, travestita da ragazzo. A volte, quando la madre spariva, lei pensava che fosse andata a letto con qualcuno. Altre donne raccontano che prendevano la pillola perché sapevano che le avrebbero violentate. Ogni personaggio è un mix di cose mie, di loro e di altri. Juan ha una parte di se stesso, il ragazzo indigena porta la 'sua' maglietta di Rambo, ed è salito sull'albero perché è una sua abitudine. Nella costruzione di ogni personaggio, era importante che ognuno mettesse la propria verità. Una testimonianza collettiva attraverso l'identificazione dei ragazzi".
Sull'immagine metaforica della neve che cade nella notte, dichiara: "Mi piace 'Il sesto continente' di, dove c'è un'immagine che si ripete e non ha un senso apparente, ma il risultato è astratto, ipnotico. Cercavo un'immagine poetica per dare il tono, mentre nella poesia passa attraverso la rima; nel cinema, per Haneke, era l'immagine delle cascate, io la trovai grazie ad un bambino che mi spiegava perché il loro viaggio non era solo 'economico', e diceva 'voglio vedere la neve, qui fa caldo, lì freddo'. E' qualcosa di innocente, come qualcuno che vuole vedere il mare. Il protagonsita, Juan, è materialista, egoista, e il suo apprendimento del mistero della poesia passa attraverso l'indio. Perde l'innocenza ma trova un modo di vedere la vita diversamente. Prima avevo pensato ad un paesaggio di montagna su cui cadeva la neve, poi, mi sono ricordato di un'inquadratura che non avevamo utlizzavamo nella scena del plastico del treno, e mi sono innamorato dell'immagine e l'abbiamo rigirata con neve vera".
"Volevo in parte smitizzare, infrangere il mito degli Usa. Dietro il confronto nord e sud, c'è una ragione economica e l'altra politica, molto complessa, ma in parte è responsabilità degli stessi emigranti, perché rifiutano le proprie culture e identità. Questo sogno diventa una morte spirituale a contatto con una cultura estremamente violenta, invece, il sud ha ancora molto da offrire. Bisogna invertire la situazione, iniziare a imparare dalle culture indigene, così come loro sono costretti ad imparare quella occidentale. Ho provato a proporre la questione in maniera positiva perché il pubblico americano veda la situazione com'è veramente; di modificare la visione del clandestino, come persona che ha dato la vita per arrivarci, per aiutare. Al di là di tutto non è una situazione utopica ma reale, solo che le multinazionali hanno interessi e si muovono benissimo in quel luogo, mentre le persone no. Spero che il film metta in discussione l'esistenza stessa, visto che il Pianeta appartiene a tutti".
"Forse è giunto il momento di conquistare noi stessi - spiega - anziché gli altri. Un poeta del collettivo di artisti guatemaltechi, Caja Ludica, mi ha detto che quello che dobbiamo fare è decolonizzare la nostra mente: se il mio obiettivo è approfittare di te, usarti, non riuscirò mai a cambiare la società. Dobbiamo guardare dentro noi stessi e chiederci: 'Cos'ho in me che cerca di controllare gli altri?' E' li che inizia la trasformazione. Si tratta di riuscire a dominare il proprio io, di lasciarsi alle spalle l'avidità, l'aggressività, l'egoismo e la tendenza a considerare gli altri come dei nemici. Dobiamo cominciare a lavorare insieme".
"Il casting è durato quasi 8 mesi, abbiamo visto tremila ragazzi - la zona è molto pericolosa, in quei mesi sono stati uccisi cinque amici del protagonista -; un'esperienza che abbiamo potuto fare grazie ai leader della zona che garantivano la sicurezza della troupe. Ma il rischio faceva parte della scommessa, ho creduto sempre che avrebbe funzionato. Poi abbiamo visto altri tremila indigeni, tra le montagne del Chiapas, però la maggioranza girava col cellulare, oppure si vergognava della propria lingua, negava la loro cultura o voleva essere altro. Alla fine è arrivato Chauk (Rodolfo Dominguez che parla nella sua lingua ndr.). Ho cercato di far capire loro che si trattava di un compromesso, di un lavoro. Hanno fatto un laboratorio teatrale di sei settimane, seguiti da Fatima Toledo (che ha lavorato in Pixote); lei conosce la problematica, e riesce a tirar fuori il meglio dei ragazzi. Ho pensato che questo mi avrebbe aiutato molto più che parlare con loro. Solo per dieci giorni hanno lavorato sulle 20 scene più importanti. Fatima segue un metodo fisico attraverso il ballo, l'espressione corporale, l'urlo, io ero con macchina da presa finché è diventata invisibile per loro. Ovviamente ognuno ha avuto una crisi, poi superata. Io dicevo 'Vuoi fare la pellicola? E' un lavoro serio, dobbiamo alzarci alle 6 del mattino, fare un duro e lungo viaggio, è un compromesso, c'e dentro molta gente e denaro investito. Dopo una settimana, non potete dire me ne vado'. A quel punto erano pronti per fare il film".
"La pellicola ancora non si è vista ancora a San Paolo (Brasile) - afferma -, è interessante per Fatima e per i ragazzi. Io ho lavorato sull'esenza delle scene, non sulle scene; loro vissero il viaggio, perché non facessero sentire allo spettatore di essere altri".
"Nella sceneggiatura (scritta dal regista con Gibràn Portela e Lucia Carreras ndr.), all'inizio, loro rincontravano Sara - dice sulla scomparsa della ragazza -, era finita in un circo, ma poi la co-sceneggiatrice, mi disse 'non la ritrovano mai, è più reale'. Io pensavo, invece, a come far capire allo spettatore, il perché non l'hanno mai più vista, perché non la cercano. Ma ci sono elementi come quando si separano e l'altro (il quarto torna indietro ndr.) abbandona, che in parte lo spiegano: Juan dice 'accada quel che accada, io vado avanti'. Però volevo si sentisse la sua presenza anche se non si vede. Lo stesso per la fine di Chauk è stato una sorta di processo. Una settimana prima delle riprese, nella scena finale si separavano, perché pensavo, se lo faccio morire è troppo facile. Invece, tutti i membri della troupe hanno detto: sì uccidiamolo così è più forte la denuncia. Poi un amico mi ha fatto vedere un video sui francotiratori alla frontiera e..."
"Io cambio continuamente - afferma sulle riprese -, se qualcuno ha una buona idea, l'accetto, in questo mi avvicino al documentario, entra la realtà in movimento. Ho lavorato in tre film con Ken Loach. In 'Terra e libertà', il primo, mi ha impressionato il suo metodo di ripresa in continuità, con attori che non conoscono l'intera storia. Il personaggio è in viaggio, tu devi creare il contesto per provocare quello che hai bisogno che succeda. La sequenza in cui Chauk prende la pistola non c'era nel copione. Lui mi aveva detto 'sono stanco che tutti vengono ci prendono e ci buttano per terra', e durante la scena, all'improvviso, prese la pistola al poliziotto, e io ho continuato a filmare Volevo fossero loro stessi a reagire, non metto la mdp dove non c'è un essere umano, sono attento allo sguardo del personaggi, all'altezza della ripresa. Loach è un grande maestro, quello non mi piace in lui è il sottolineato politico, io cerco di essere più sottile, che lo spettatore veda e prenda posizione da solo. Bisogna sapere cosa dire ma soprattutto come articolarlo perché l'idea arrivi al pubblico, come il conflitto tra l'indigena e l'occidentale. Sennò è discorso puro, teorico, questa è la parte più difficile del nostro mestiere".
José de Arcangelo
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