domenica 24 novembre 2013

"Il terzo tempo" di Enrico Maria Artale, un'opera prima che diventa dramma esistenziale sulla ricerca di redenzione attraverso il rugby

Presentata - in concorso - nella sezione Orizzonti del Festival di Venezia “Il terzo tempo” si può ben considerare un’opera prima fortunata perché l’esordiente nel lungometraggio Enrico Maria Artale, diplomatosi al Centro Sperimentale di Cinematografia e, dopo aver vinto un Nastro d’Argento per il corto “Il respiro dell’arco”, ha trovato un produttore in CSC Production e un co-produttore e distributore di tutto rispetto come Aurelio De Laurentiis per Filmauro. Un’occasione che tutti i neo-registi sognano e che l’esordiente ha preso al volo senza sprecarla.
Fondendo nel film impegno (ha fatto esperienza nel documentario e ne ha preso spunto) e spettacolo, sport e sentimenti, tenendo come riferimento un certo cinema sui temi – soprattutto quello hollywoodiano – che miscela dramma e rugby, adolescenza e amore, entrambi ugualmente difficili.
Infatti, in questo senso la sceneggiatura del regista, Francesco Cenni e Luca Giordano, segue un percorso narrativo tradizionale, se vogliamo lineare, per raccontare la vicenda di un giovane dal duro passato e dall’incerto futuro, diviso tra opportunità e insofferenza, lotta e redenzione. La storia non è del tutto originale – tranne per il rugby -, ma è costruita con coerenza e abilità dal giovane Artale che, se non ha ancora un proprio stile, dimostra di saper conquistare il pubblico con un già sicuro ‘mestiere’. Il suo mix funziona perché non ha tempi morti né si dilunga inutilmente (durata standard di 96’) e mantiene un certo equilibrio fra i diversi elementi e/o generi che lo compongono.
Samuel (Lorenzo Richelmy) è un ragazzone nato e cresciuto in condizioni difficili e violente. Non ha mai conosciuto il padre, ha avuto un fugace rapporto con la madre tossica e ha vissuto parecchi anni tra istituti e carcere, furti e piccoli reati. Finito l’ennesimo periodo di reclusione, il magistrato di sorveglianza lo inserisce in un programma di riabilitazione presso un’azienda agricola di provincia. Il suo supervisore è l’assistente sociale Vincenzo (l’italo-francese Stefano Cassetti), il quale – dopo la morte della moglie – fatica a ritrovare l’equilibrio nella sua esistenza: si divide tra il lavoro, la figlia adolescente Flavia (Margherita Laterza) e l’impegno di allenatore della squadra locale di rugby, gestita dalla stessa proprietaria dell’azienda, Teresa (Stefania Rocca).
Tra Samuel e Vincenzo si instaura per forza di cose un rapporto, prima ostile, poi pian piano diventa confronto e, infine, sfida. Il ragazzo non sopporta il lavoro agricolo e l’altro lo spinge ad entrare nella squadra, un modo con cui poter scaricare tutta la sua energia e sfogare la sua rabbia, costringendo anche i giocatori a dare il meglio. Il tutto scorre nel classico modo fino ad un finale, magari prevedibile e/o già visto – naturale che i coetanei Samuel e Flavia scoprano l’amore -, ma che ben si adatta al tradizionale ‘spettacolo cinematografico’ che fonde coerentemente dramma esistenziale e rivincita sportiva. Infatti, non a caso lo slogan del film recita: “Nella vita c’è un tempo per giocare, un tempo per lottare e un tempo per amare”. E, per vincere nella vita, vanno rispettati tutti e tre.
Nel cast Edoardo Pesce (Roberto), Franco Ravera (giudice), Germano Gentile (Ringo), Valerio Lo Sasso (capitano), Gianluca Vicari (Chicco) e l’amichevole partecipazione di Pier Giorgio Bellocchio (allenatore rivale, Marcocci). Le musiche originali sono di Ronin, e la fotografia di Francesco Di Giacomo. José de Arcangelo
(3 stelle su 5) Nelle sale dal 21 novembre distribuito da Filmauro

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