martedì 23 settembre 2014
Con "La buca", Daniele Ciprì rende omaggio alla commedia del classico passato cinematografico, da Totò e Peppino a Matthau-Lemmon
Attenzione a non cadere ne "La buca" ovvero la nuova commedia di Daniele Ciprì, con la 'strana coppia' Castellitto-Papaleo, in uscita in oltre 200 copie dal 2 ottobre distribuito da Lucky Red. Ma non si tratta di una commedia 'contemporanea' anche quando indirettamente parla dell'oggi, ma di una commedia quasi surreale che rievoca, omaggiandolo il vecchio cinema italiano degli anni Cinquanta-Sessanta, quelle commedie tra Steno e Dino Risi, quando Totò faceva coppia con Peppino e Gassman con Tognazzi; ma pure quella hollywoodiana del maestro Billy Wilder con la coppia, appunto, Jack Lemmon-Walter Matthau. E si tratta di un vero cinema di 'finzione', e come si faceva allora tutto girato in studio, ricostruito, e su pellicola. Una celebrazione del cinema che fu attraverso quello 'visto' e amato dall'autore. Infatti, piacerà a chi non pretende ridere a crepapelle, o a chi anziché l’omaggio tende al confronto con gli ‘originali’.
"Quando racconto una storia parto da un'idea realistica - esordisce Ciprì -, ma navigo su un'evocazione del cinema, non voglio offendere nessuno (a proposito di citazioni), ma non riesco a immaginare una storia in un luogo realistico, non costruendo il non luogo; avendo dei luoghi del mio immaginario, disegno una strada, una periferia, caratteristica diversa da quello facevo in 'Cinico tv', quello era un altro mondo. Nel contemporaneo sono poco entusiastico, però cerco di rubare dalla vita, prendo il metro per guardare le persone e i caratteri nel mio immaginario, dichiaro un immaginario 'disegnandolo', è il mio modo di vedere, non so se riuscirò a fare altre, ma altrimenti non riesco a raccontare le cose della vita".
"Se ricordo qualcuno - ironizza - è Kubrick, ma è il mio immaginario è quello vissuto da piccolo col cinema e le fiabe, fa parte de 'La buca', e arriva in un luogo 'ai confini della realtà', quell'immaginario di cinema e attori che lo interpretavano, un mondo che vuol fare riflettere, i personaggi sono buffi, soprattutto Oscar (Castellitto) è abbastanza vicino".
"Gershwin è uno dei più amati e odiati, tutto quello che ha fatto in assoluto, Pino Donaggio mi venne a trovare sul set, 'sono accanto a Pino Donaggio', pensai, grande autore di colonne sonore, e lui era in un albergo dov'era stato Gershwin. Gli attori lo sapevamo che c'erano queste musica, vivevano questa atmosfera, anche se non c'era sul set".
"A proposito della musica, fa piacere che venga nominato Gershwin - ribatte Papaleo -, perché è stato il musicista più importante del secolo scorso, anello di congiunzione tra classica e contemporanea, ho avuto sempre dentro la sensazione d'interpretare un personaggio a lui collegato, ma c'è chi la conosce e si affida, e chi non viene penetrato, non vive questo amplesso tra storia e musica. Io sono stato violentato da piccolo dalla musica".
"Quando faccio la regia penso alla musica, quale canzone sarebbe il film, e cerco di ubbidire in modo autorevole, mi piacciono i riferimenti Jack Lemmon-Walter Mattau, ma io cito Gassman-Tognazzi, Ciccio e Franco; sporcare in qualcosa di più popolare, di sanguigno. E' una commedia non un film comico, racconta cose divertenti, simpatiche, paradossali, su un tema di una gravità in cui l'Italia continua a sguazzare. Il taglio è quello dell'incontro/scontro nella recitazione di una commedia dall'impianto elegantissimo".
"La musica ha ispirato anche me - dice Valeria Bruni Tedeschi che è Carmen, la dolce barista -, ma guardando loro due mi veniva da ridere, perche tra la solitudine e la malinconia di questo bar loro erano l'allegria".
"Anche nella realtà sono così - afferma Ciprì -. Un riferimento abbastanza dovuto è a Mel Brooks che mi ha accompagnato in questa 'follia', è talmente evidente che lo citiamo, dal mio passato, in tutto il film, in tutto quello che faccio. Al modo di fare gesticolare gli attori, sono strumenti che dobbiamo accordarci, devo avere uno strumento, il citare un film dichiaratamente un piccolo riferimento a Brooks (Frankenstein jr.) grandissimo film con una semplicità assoluta. E’ l’omaggio a un film amato".
“E’ evidente la pendenza con la giustizia e con l'ingiustizia – chiosa Papaleo -, di solito c’è poca o troppa fantasia degli sceneggiatori”.
“Mi sono sentita a mio agio tra due mondi diversi – ribatte Bruni Tedeschi -, anzi tra due clown, uno cinico l’altro futurista, era molto gradevole trovarsi tra questi due mondi”.
“Daniele è un appassionato di cinema e ha tantissime cosa da dire – riprende Papaleo -, mi ha detto tantissime cose, è adorabile, logorroico, le sue indicazioni non ne so restituire neanche la metà; nel complesso il mio personaggio è in un certo senso monotono, ma abbastanza complicato raffigurarlo, durante le riprese sei in stato di trance ti e ti affidi all'occhio protettivo. E’ come un angelo che cade dalla prigione rispetto all'altro, è uno senza rancore, la chiave determinante è quella di un uomo che non ha nessun idea di vendicarsi. La Bruni Tedeschi ha un’aria tedesca, ci ha dato ebbrezza, e mi sono ricordato della frase di Mandela quando uscì dal carcere, la sua assenza di rancore gli ha permesso di fare un percorso straordinario dopo. Sentimento accomuna il personaggio con l’incanto ingiustificato”.
“Oscar è il cattivo di turno – dichiara Castellitto -, è un piacere per l’attore, e ho abbandonato la tradizione dell'attore drammatico, intanto venivo di ‘In treatment’ (la versione italiana del serial televisivo prima israeliano poi americano ndr.). Ho avuto la possibilità di recitare velocemente come fossi in un cartoon, quasi al limite dell'inciampo, tutta la sua filosofia si regge perché deve dare dignità alle truffe che organizza in nome di una serie di piccoli disgraziati da cui prende piccola tangente. Parla di filosofia del diritto, per rendere letterario il fatto di essere un truffatore, un grande avvocato conosce il giudice. Il film racconta comicamente una tragedia. Ci siamo molto divertiti, c’era una bellissima complicità, amicizia, curiosità, visto che spesso si recita contro gli altri. E’ stato come farsi tirare per la giacca verso un altro tipo di cinema, e ci siamo mescolati bene, ognuno un colore”.
E se la coppia non sempre funziona – può sembrare un Castellitto sopra le righe e un Papaleo sottotono proprio perché Ciprì ha scambiato loro i ruoli, crediamo appositamente -, ma la commedia può risultare gustosa a chi desidera anche ‘soltanto’ ricordare il cinema di una volta, quelle commedie che riempivano le sale negli anni ‘50/’60 e non solo da noi.
“A parte che la sceneggiatura è stata scritta prima di ‘Un boss in salotto’ (l’altro film con Papaleo uscito nella passata stagione ndr.) – dichiara la sceneggiatrice Alessandra Acciai -, il personaggio di Armando lo abbiamo disegnato mettendoci a tavolino con Daniele e Massimo (Gaudioso) per una storia che voleva raccontare un'amicizia tra un truffatore e una vittima, e potrebbe essere il figlio di Bussu (il personaggio della precedente commedia di Ciprì ndr.) che va in carcere, e viene fuori un personaggio come Oscar. Il riferimento è il precedente film perché volevamo lo dichiarassero innocente”.
“E’ un film molto diverso dalle mie precedenti esperienze di regia – ribatte Ciprì -, ma nello stesso tempo c’è un senso di continuità. In fondo, Armando, che ha subito l’ingiustizia di anni di galera, potrebbe essere ‘il figlio’ del mio precedente lavoro (‘E’ stato il figlio’)… Quando si spengono le luci si dovrebbe viaggiare – aggiunge sull’esperienza cinematografica -, come ci faceva fare Billy Wilder, ho sempre pensato a Lubitsch che ci portava molto lontano. I grandi non li cito, ma voi li conoscete. Io non sono un critico né studio il cinema, ma ho scoperto che al cinema non viaggio più. Perciò cerco di farlo io, e di portarci lo spettatore; e sullo schermo un'immagine dobbiamo trasformarla. Mi sono chiesto Ho fatto bene con questi due personaggi, anzi tre col cane, e dove li porto? I due protagonisti non erano amici, e così ho pensato il cane è il miglior amico dell'uomo, quindi un cane per caso li fa incontrare, però il presente non mi dice nulla di particolare, e così tutti e quattro (firma la sceneggiatura anche Miriam Rizzo ndr.) stavamo a guardarci per sistemarlo. Volevo un viaggio nella nostra vita attraverso il cinema di una volta. Ho voluto ambientarlo in una metropoli immaginaria, sperando di dare un senso di astrazione. Volevo divertire il pubblico con una storia che non avesse tempo né luogo. In questo sono stato aiutato dalla Musica di Pino Donaggio e Zeno Gabaglio e dagli interventi pianistici di Bollani. Però la complicità visiva non si ottiene se non hai costumista (Grazia Colombini), scenografo (Marco Dentici), attori e musicisti, la cornice, altri personaggi. Hanno tutti un'importanza, ho la nostalgia del raccontare di una stagione visiva che non c’è più, anche i produttori stessi non hanno più il coraggio di produrre un immaginario diverso, spero il mio film riesca a farlo, a ritrovare quella forza evocativa”.
“Ho fatto tante cose col coautore (Maresco ndr.) – conclude -, qualcosa che esiste in un contesto grottesco, surreale, estraneo nel panorama italiano. Non ho mai tradito il mio passato, e mi viene naturale accordare i professionisti con l’esasperazione del grottesco, e spingerli quanto voglio a non essere realisti. Tant’è che Wenders voleva noi per trovare i posti adatti per girare in Sicilia ma io non li conosco proprio, il mio cinema è molto astratto, e per cercare di andare avanti prendo forma dal disegno, attraverso di un meccanismo illustro le cose che fanno parte dell’immaginario, il mio è un ‘film in vinile’, girato in pellicola, non per un discorso tecnico, ma per tornare ad un certo cinema che è stato distrutto col digitale. Volevo qualsiasi forma per arrivarci, parlavano del vecchio cinema, e non riesco a farlo se non estraniandomi, ma non ritornerei a ‘Cinico tv’, oggi è impossibile rifarlo”.
Nel cast anche Jacopo Cullin (Nancho), Ivan Franek (Tito), Teco Celio (il giudice), Sonia Gessner (signorina Monterosa), Giovanni Esposito (cieco) e l'inimitabile cane Sioux.
José de Arcangelo
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