mercoledì 29 ottobre 2014
Alejandro Jodorowsky torna sul grande schermo con "La danza della realtà" un viaggio autobiografico ma non troppo nella sua infanzia che è davvero 'un atto poetico' universale
Dopo 22 anni di assenza, forzata, dal grande schermo ritorna Alejandro Jodorowsky con "La danza della realtà" - presentato alla Quinzaine des realisateurs del Festival di Cannes e al SXSW Film Festival nel 2013, e in questi giorni per un premio al regista al Trieste Scienze + Fiction -, ora nelle sale grazie a Garabombo arte in movimento, di Salvatore Pecoraro e Antonio Bertoli. E, visto che qualcuno l'ha già definito l'Amarcord di Jodorowsky, l'autore esordisce: "Ho incontrato Fellini su sua richiesta - forse gli era piaciuto il mio film -, quando stava girando 'La voce della luna' in aperta campagna, davanti ad un cartello luminoso, sotto un cielo nuvoloso, in una notte oscura. Mi portarono verso di lui, io pensavo fosse più grande di me invece... Lui urlò 'Jodorowsky' ed io 'Papà' e ci siamo abbracciati sotto la pioggia battente e poi non l'ho più rivisto, ma non l'ho mai diemnticato".
"Questa pellicola è il mio Amarcord? Quando c'è qualcosa di nuovo il cervello deve ‘ubicarsi’, abituarsi, e cerca il confronto. In 'Amarcord' Fellini parla della sua infanzia, io della mia ma la posizione è diversa. Fellini ha un grande amore per il passato, una melanconia, la magia infantile di fronte all'ingenuità del mondo, il passato visto come fosse sacro, qualcosa che non cambia; per me, invece, il passato è trasformabile, estraendolo lo si mette nel presente offrendogli quello che non ha, nel mio film è visto con gli occhi di un bambino, non ci sono ombre, ho eliminato le riprese estetiche. C'è il personaggio di mia madre, che ha sempre voluto diventare una cantante lirica, io faccio in modo che si realizzi; mio padre era un uomo forte, inumano, che non ha mai trovato l'umano dentro di sé. Ha sempre parlato di voler ammazzare il tiranno ma non l'ha mai memmeno tentato, io invece lo mando davanti a lui. Non ho mai visto mio padre e mia madre baciarsi (invece nel film sì ndr.), mia madre era una donna umiliata, mio padre, forse, avrebbe voluto diventare un maestro. Io ho voluto che si abbracciassero, per fare in modo di curare la mia anima attraverso un altro punto di vista. Cosa darei per averne un altro passato, non avrei sofferto quello che ho sofferto, purtroppo bisogna vivere quello che la vita ci offre".
“Ho preso un capitolo del primo e uno del mio secondo libro 'Il figlio del giovedì nero', ma non ho fatto un film in 22 anni semplicemente perché non avevo i soldi, però non ho mai abbandonato l'idea, ci ho sempre pensato, e ogni sera vedevo un film o due con sofferenza e invidia. Tanti film erano stati fatti e io non potevo fare il mio, da una parte avevo davanti l'industria cinematografica che non voleva produrlo, perché un film d'arte assolutamente non si può fare; dall'altra dei distributori codardi, per cui non devi fare altro che film d'azione, ‘niente arte per piacere’ dicevano. Invece, il cinema è un mondo poetico, allora ho (ri)cominciato a vivere con i fumetti, col teatro, con la scrittura, risparmiando soldi, poco a poco, per poterlo produrre, lo vedevo come un 'Avatar' da 400 milioni di dollari, ma ho risparmiato molto meno. ‘Avatar’ è una pellicola fantastica che è costata tanti milioni di dollari, ma è puro intrattenimento, la gente arriva al cinema tremando come un idiota, si riposa per un paio d'ore e ritorna idiota. Ma dove c…. è l'arte? Non è noioso parlare di cose profonde, mostrare quello che scopri di bello in te stesso, darti un'emozione sublime: il cinema è la più grande arte perché racchiude in sé tutto, musica, teatro, pittura, mi fa pena perché oggi è tutto più corrotto, mai prima l'artista metteva il proprio denaro per realizzare la sua opera. Io l'ho fatto per un film che per vent’anni non ho potuto fare, ora ci sono riuscito. I produttori dicevano non metterti al nostro posto, anzi con il nostro denaro usa una star e fai il film. A quel punto ho avuto l'aiuto dal governo e dal coproduttore francese. Più che attori io voglio esseri umani, nel ruolo di mio padre recita mio figlio Brontis, l'altro fa il maestro, la nana è la figlia della nana de 'El Topo' (la madre era vergine quando l'avevo scelta!), Don José è davvero un falegname cattolico e santo, me lo riportai da Parigi in Cile per il film. Altrimenti come faresti a far vedere un santo con un attore, allora mi son detto 'metto un santo vero'. Ora farò il seguito e io avrò 17 anni, chi farà il mio ruolo? Nessuno eccetto mio nipote, quando farò la parte in cui avevo 20/25 anni, mio figlio Adam, e - ironizza - nella parte in cui avrò 125 anni, chi la farà? Le star sono buone per i film industriali, io ho fatto 'Il ladro dell'arcobaleno' e ancora soffro di quell'esperienza, le star ti demoliscono l'ego. Il produttore diceva 'non scontrarti con le star, anche se loro non hanno ragione tu ti inchini, altrimenti mando via te, mica loro, perché sono quelle che portano i soldi. Quindi, dovevo stare al servizio di Peter O'Toole e Omar Sharif. Peter l'ho addirittura odiato, mai più un film con lui. E’ ancora peggio quando la star stessa vuole fare un film d'arte perché ha bisogno di esprimersi però ciò diventa una sorta di veleno interno al film, perché alla fine gli spettatori vedono solo lui. Nicolas Winding Refn mi disse, quando gli avevano proposto di fare il film a Hollywood: 'Cosa faccio?' chiese terrorizzato; 'ti metteranno una star - gli risposi -, ma attenzione i produttori non sono artisti, è gente di denaro, sono dei funzionari, ti chiedono di fare dei cambiamenti. Tu sorridi e dì loro sempre sì, fai tutto sulla carta, metti i cambiamenti sulla sceneggiatura, loro poi si dimenticano, e tu fai quello che vuoi. Però il film lo fece, poi anche un altro film con lo stesso attore (Ryan Gosling ndr.), e la terza volta voleva sempre lui. Io dissi 'un bicchiere va bene, due, forse, ancora, ma tre può essere catastrofico'".
"Mi meraviglia il fatto che il cinema oggi sia diventato una specie di tempio, e distribuire un film d'arte una vera guerra, la lotta tra un piccolo David contro un immenso Golia. Siamo colonizzati dal cinema americano, loro ti vendono 'Transformer' e, insieme, un sacco di merda; ti danno questo e nove porcherie che però finiscono in tutti i cinema, e nemmeno i distributori vogliono il cinema d'essai, io ho pensato ad una soluzione alternativa. Dove facciamo l'anteprima negli Usa? Al Moma di New York, dov’è stato presentato addirittura dalla Abramovich, una donna alta quasi due metri, tutta rifatta. Ho pensato 'Frankenstein sta presentando il mio film’. Quelli che ci restano sono questo tipo di luoghi, istituzioni, centri culturali, e lavorare con un professionista e amico - la mia pellicola è stata prodotta da Michel Seydoux -, uno che crede nell'arte, fratello dell'altro Seydoux, il patron della Pathé. E a Parigi il film è in programmazione da un anno e non abbiamo speso nemmeno un soldo in pubblicità, l'ho fatta io, tramite il passaparola, e la gente si accalcava sempre più per vederlo. Un film industriale non merita niente, farò il mio e continuerò a perdere denaro, e a pensare come fare la guerra. Ora sono stato a Bari, dove un centro culturale ha organizzato l'anteprima, ed è stata una conferma che la gente s'interessa alla cultura, ai valori positivi, spirituali, tant'è che si sono presentate 700 persone paganti per vederlo. Si può affrontare la battaglia, non mi possono impedire di vedere i film che ci sono, anche se riempiono le strade, le città con pubblicità di porcherie. Quando vedo certi film mi chiedo: ‘è così che immaginano il pensiero infantile?’ Sono andato a vedere "L'Hobbit", oppure pensate a Paperino e allo zio Paperone. Dove dorme l'Hobbit? In un tempio pieno di oro - come Paperone -, e dove dorme il film, il cinema oggi?" Idem.
“I tarocchi? Li porto sempre con me. L’8 è la giustizia, la donna perfetta con la spada e la bilancia, taglia l’inutile ed equilibra il resto; il 21 è il mondo, la realizzazione; il 4 l’elemento intellettuale, il corpo; il 7 è un uomo, ma la giustizia e il mondo sono donne. Però i tarocchi non prevedono il futuro ma ti aiutano a capire il presente. Posso dire ‘un uomo non so se lo incontrerai, ti posso dire perché non lo trovi, così come che non trovi lavoro perché non vuoi trovarlo. Addirittura mi dicono ‘non riesco ad avere un figlio’ e io ‘chi te lo proibisce?’ Bisogna capire cosa pensano sull’essere madre in famiglia, la ragazza che me l’ha chiesto era la quartogenita, di padre meccanico; doveva essere lei il maschio che aspettavano e non è venuto, così lei inconsciamente si autoproibisce molte cose. Era bella, portava gli occhiali, indossava una tuta, nascondeva il seno, aveva i fianchi stretti, in realtà viveva una situazione molto dolorosa. Ci sono molte ragioni, così le domande sul futuro tu le riporti sul presente”.
“La danza de la realidad è un atto di ‘psicomagia’, ho viaggiato per 2000 km fino al paesino dove sono nato, con tutta la troupe, oggi restano si e no quindici persone, ma non è cambiato in cent'anni, è uguale a com'era anche prima, tutto quello che vedete tranne il negozio dei miei genitori che, proprio a fianco della caserma dei pompiere, si è incendiata. Io l’ho ricostruita com’era prima, il cinema invece era stato demolito e l'ho ricostruito pure, di fronte c’era il barbiere giapponese che mi aveva tagliato i capelli, sono entrato è ancora lì c’era un vecchietto, era il figlio del barbiere. La strada e la piazza erano per me allora l’intero universo, quando ritornai era diventato piccolino. Sono stato allontanato, la città stessa mi aveva rifiutato, ora sono ritornato come un eroe, tutti hanno lavorato al film, per due mesi abbiamo avuto la chiusure di tutte le strade. Il sindaco nel film è l'ex sindaco del paese, tutti hanno partecipato alla come ricreazione del mio passato. Mio figlio aveva spesso degli shock, facendo il ruolo del nonno era micidiale, tant’è che in certi momenti volevo picchiarlo. Si è instaurata un'amicizia formidabile, alle fine ci siamo potuti abbracciare tutti, parlare della crisi del ‘39, quando era in miseria il 75% della popolazione, in una cittadina ai margini del deserto dove non ha mai piovuto per tre secoli, e si continuava a lavorare in miniera con la dinamite, e spesso in minatori perdevano braccia o gambe, ma venivano cacciavano via come cani, e venivano a Tocopilla, li avevo visti proprio, si ubriacavano con l'alcol delle lampade, e il paese sopportava anche pazzi, senza mani e/o senza piedi. ‘El moscardon’ (Il Moscone ndr.), arrivava al negozio a grattarsi sulla vetrina proprio come nel film, e mio padre lo cacciava perché allora girava il tifo ‘esantematico’, i pidocchi trasmettevano una sorta di ebola, e quando mio padre mi vide abbracciarlo è diventato un pazzo furioso perché mi poteva passare i pidocchi. Era molto importante per me, ma dovevo trovare un attore senza mani. L’ho cercato su Twitter, e mentre ero al café aspettando, mi chiama un uomo che aveva avuto un incidente aereo particolare e aveva perso le mani, mi disse ‘credo posso fare l’attore, mi mancano le mani e anche un occhio’; mi è scappato un 'fantastico', venga, venga subito’. Difficile trovare anche un cavallo bianco selvaggio, di solito sono nel circo o dell'esercito, ma sono stati addestrati come zombi, poveri cavalli. Io amo molto i gatti, lo spirito animale, volevo un cavallo che avesse un’anima, volevo mettere un annuncio, ma qualcuno mi disse ‘conosco un uomo molto ricco che adora i cavalli, ti do’ l’indirizzo se mi leggi i tarocchi. Lo vedete nel film, il proprietario è lo stesso vecchietto che interpreta il povero stalliere che si uccide. L’ha fatto per il piacere di mostrare il suo cavallo, e come i gatti, il cavallo è stato bravissimo, tanto che mio figlio piangeva veramente in quella scena”.
“Sono stato malato, e non ho mai parlato per due mesi – confessa per giustificare il suo fiume di parole -. Arrivato in Cile dove il cinema non è un’industria non e non ci sono servizi, così avevo detto allora ‘devo far morire il cavallo nel film, e qualcuno dice facciamo dei pezzettini e poi lo ricomponiamo. Ma lo stesso padrone mi disse, quando è malato, per curarlo gli fanno l’anestesia così possiamo fare un'iniezione per addormentarlo’. Abbiamo fatto in modo che il suolo fosse tutto morbido, perché se cadeva non si facesse male. Infatti, quando sta morendo in realtà si sta risvegliando, però c'è stato una sorta di miracolo. Stavamo in un balconcino per filmare, quando arriva il Presidente e chiede ‘cosa è successo’, aspettavamo perché era sdraiato, in quel preciso momento il cavallo alza la testa e poi cade. Per arrivare a ottenere una scena così devi insegnarselo per sei mesi, invece lui nel momento preciso l’ha fatto spontaneamente, nessun problema”.
A proposito del film dal libro di Carlos Castaneda, dichiara “Don Juan nessuno lo conosceva, quando mi trovavo in Messico, lo stesso Castaneda mi ha cercato e mi ha detto che gli sarebbe piaciuto incontrarmi, mentre io stavo preparando ‘Dune’ (il documentario ndr.), l’appuntamento era a mezzogiorno e mezzo, lui arriva cinque minuti prima e dice ‘mi perdona, sono in anticipo di 5 minuti, posso entrare lo stesso’. Le classi sociali in Messico sono ancora ben definite, lui è di Los Angeles dove sono pure mescolati con gli indigeni, sua madre era un’india, un’altra sua caratteristica è che ha il viso ‘punterato’ (cicatrici) dal vaiolo, ha un fisico non differente da quello di un cameriere da café messicano; ma quando parlava era un 'Sir'. Mi disse ‘ho cinque milioni di dollari per fare Don Juan, e sarà Anthony Quinn’. Io risposi: ‘Ma sullo schermo non saranno i miracoli di Don Juan ma, con Quinn, diventeranno i miracoli di Hollywood’. Lui capì, ma io non so se era un genio o un bugiardo, e quando siamo usciti ‘sull’Avenida’ passò un donna e lui si girò e mi diede una palmata sulle spalle, mi raccontò che davvero aveva fatto un salto ed era caduto a 50 km di distanza, ma io gli credo e non gli credo. Non lo giudico, io dovevo vedere una bruja (stregona), Pachita che doveva operarmi al fegato, e avevo invitato Castaneda ma non venne. Poi all’Hotel Hollywood Inn, il portiere mi ha descritto la donna con cui se n'è andato: un’attrice dal seno prosperoso. Non so più nulla, sto aspettando qualcuno che possa saltare a 50 km distanza”.
“Per 40 anni ho guidato senza patente, una volta sono passato col rosso e la polizia mi ha scoperto, e dissi, ‘sono uscito senza patente’. ‘Si presenti domani in caserma, come si chiama?’ ed io ‘Brontis Jodorowsky’, e ho mandato mio figlio Brontis che aveva la patente. Non ho mai saputo come è fatta la macchina, ma noi passiamo una vita intera in questo corpo e non sappiamo come funziona. Come è composto, che parti ha? Io mi sono fatto uno schema, all'inizio influenzato da Gouges e da altri, ci sono cinque dita, il pollice è separato dagli altri, è quello che ti fa umano, senza sei una scimmia, quello che chiamiamo io viene formato all’interno del ventre della madre: tutte le cose psicologiche, famigliari, dell’etnia. E ci sono quattro tipi di linguaggio: intellettuale, parla delle idee; della parola, il giornalismo; il linguaggio emozionale, differenti sentimenti che il mondo della cultura non tratta molto, l'arte invece lo affronta. Il terzo io è quello del sesso; mentre l’io corporale parla con l'azione. Nella religione cristiana il sesso è il padre, l’intelletto lo spirito santo, il figlio quello emozionale, ma c’è un quarto, la vergine Maria, è il corpo che riceve l’energia intellettuale e sessuale, linguaggi che non si comprendono, pieni d’interruzioni: La sessualità deve lottare con la morale, hai bisogno di una coscienza, di un distaccamento, non sono i miei sentimenti ma li provo, non sono i miei desideri ma le ho, non sono le mie azioni, ma comprendo, parlo e traduco ai quattro io. Chi sono io? dove sono? C'è gente che non ha coscienza individuale, quelli ti ammazzano per strada, rubano; sono animali, non hanno una coscienza. Dall'io passiamo al noi, alla coscienza collettiva; io in realtà è noi, la grande lezione del cinema è questa, devo lavorare con un esercito per fare film, che è prodotto della coscienza collettiva”.
“Il pensiero egoista ti porta a poco – prosegue -, Bertoli (produttore-distributore ndr.) hai piccoli problemi ma grandi ostacoli, quando fai arte collettiva serve umanità, cominci a lavorare sopra coscienza cosmica di una collettività di essere viventi, tutto è vivente, il sole la galassia l’universo sono dentro di te, sono la tua mente. L’Italia è un paradiso, da Francia e Spagna, sono contento ancora, è difficile dimenticare di essere italiano, essere cosmico è possibile, qualcosa di impensabile che c'è, di altro, la coscienza divina. Questo siamo, è il nostro cervello. Freud non ha mai toccato un malato, aveva una paura panico della sua sessualità, arrivi pian piano all'abbraccio, l'incosciente non è un bambino perverso, è luminoso un tuo alleato, abbiamo una parte luminosa e una parte in ombra, milioni e milioni di neuroni, tant’è che prima di dormire smetto pensare, l'intelletto vuol vedere e comincio a cercarmi, però mi addormento, sembra quasi che l'essere non vuole che scopri chi sei veramente”.
E conclude sull’attualità: “Non è la politica il problema, ma è l'economia globale. Non esiste più un’ideologia, un presidente non ha potere, è un sogno infantile e lo paghiamo noi, in pratica sarebbe un nostro impiegato, come un cameriere a cui chiedi un buon caffè, e diciamo a lui ‘fammi una buona legge’. Io devo molto all'Italia, la ‘psicomagia’ si basa su una frase del futurismo, Marinetti diceva 'la poesia è un atto', e si è lanciato a fare atti poetici, si è tirato fuori dal mondo delle lettere. Anche il bambino dipinto di nero è un atto poetico, ci sono vari all'interno del film. E quando dovevo vedere la bruja Pachita, di fronte c’era una scultura in metallo che riproduceva il David di Michelangelo. Se io ho pubblicate le poesie è perché un giorno mi sono perso a Firenze e ho trovato una libreria che vendeva solo libri di poesie (‘ero io il padrone’ ribatte Bertoli). Avevo vergogna di essere un poeta, perché mio padre diceva che erano tutti omosessuali, e le tenevo nascoste. Nella libreria c’era una sessione di poeti beatnik, Ferlinghetti, Corso, ecc, e io nascondevo da sessant’anni il fatto di essere un poeta; è meraviglioso pubblicare in una pagina, su un libro, in duemila copie, e Bertoli mi ha detto ‘ti regalo un mese d’avventura poetica in Italia’, ho fatto un recital e abbiamo venduto tutte le copie ‘De lo que no se puede hablar’. E quando Pathé voleva un distributore professionale in Italia, io ho detto ‘voglio sia un poeta e fateli pagare poco’. Voglio si parli del film come di un atto poetico, perché siamo qui e siamo in guerra”.
José de Arcangelo
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