giovedì 4 dicembre 2014
Arriva nelle sale italiane "Pride" di Matthew Warchus, scritto da Stephen Beresford, ovvero quando 'l'unione fa la forza' trionfa la solidarietà tra minatori in sciopero e gay
Da una storia vera presto dimenticata e poco conosciuta anche in patria, il film “Pride”, diretto dal regista teatrale Matthew Warchus e con un cast efficacissimo, dalla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes alle sale italiane dal’11 dicembre. Uno di tanti film che in questo momento parlano di amicizia e soprattutto di ‘solidarietà’, dall’Olmi di “Torneranno i prati” al Loach di “Jimmy’s Hall”, di imminente uscita. Una commedia sociale corale, ricca di emozioni e di trovate, divertente e commovente al tempo stesso che mette in risalto un ‘motto’ caduto nel dimenticatoio negli ultimi decenni: l’unione fa la forza, ovvero le battaglie vanno combattute insieme per i diritti di tutti.
Una commedia dolce-amara come la vita quotidiana di lavoratori, anzi dei minatori, e gay nella Gran Bretagna della ‘signora di ferro’ Margaret Thatcher. Durante lo storico sciopero dei minatori del 1984, un gruppo di attivisti del movimento gay, spinti dalla solidarietà verso chi, come loro, lotta contro il sistema, decide di raccogliere fondi per gli scioperanti del Galles. I minatori, però, accolgono con diffidenza l’iniziativa, considerando il sostegno di lesbiche e gay inopportuno e imbarazzante. Ma l’incontro fra i due mondi, difficile per non dire esplosivo, si trasformerà in un’entusiasmante amicizia, piena di sorprese e scoperte.
“Io l’ho scritto vent’anni fa – esordisce lo sceneggiatore Stephen Beresford, a Roma con gli attori Andrew Scott e George Mackay per l’anteprima stampa, alla Casa del Cinema -, una grande storia che mi è stata raccontata, e si sa noi sceneggiatori siamo un po’ sciacalli, e in cui ho visto la possibilità di trarne un film. Allora la prima reazione è stata l’incredulità, anche dopo questa storia di solidarietà tra minatori e gay poteva sembrare incredibile e lo è ancora oggi. E aveva un finale potentissimo e bisognava inventare intorno una storia. Ho cominciato a fare delle ricerche e, dopo il racconto delle loro storie incredibili, ho capito che c’era ben poco da inventare”.
“Per le ricerche ho avuto qualche difficoltà – prosegue -, allora non c’era internet, perciò ho trovato pochi documenti. Poi ho scoperto che il movimento LGSM (Lesbian and Gays Support the Miners) aveva prodotto un video in proprio, ma in esso non c’erano dei nomi, solo dei ringraziamenti finali, così mi sono segnato i nomi e ho provato a contattarli tramite Facebook e molti mi hanno fatto conoscere tutti quanti e mi dissero che dovevo parlare con Mike Jackson, all’epoca segretario del movimento che aveva archiviato tutto, dai verbali delle assemblee ai ritagli di giornali. Per me fu come scoprire la tomba di Tutankhamon e dai rapporti con loro siamo arrivati al film”.
“Le cose che mi sono piaciute di più del mio personaggio? – risponde Scott, nel ruolo del mite omosessuale Gethin che non ha mai fatto outing in famiglia né in provincia -. Il fatto che fosse così gentile, e anche un po’ dark, è uno dei motivi che hanno reso il mio lavoro molto piacevole. Ho tanti ricordi della lavorazione, ricordo in maniera particolare la prima lettura comune del copione, tra 75 ruoli parlanti, tanti protagonisti e un regista bravissimo intorno ad un tavolo e la musica anni ’80 sullo sfondo. Un’atmosfera particolare perché c’erano ragazzi molto giovani accanto a vere leggende del cinema inglese (Imelda Staunton, Bill Nighy, Paddy Considine ndr.). E alla fine siamo stati tutti molto colpiti, c’erano argomenti che stavano a cuore a me e adatti a tutti quanti, perché tutti trovano qualcosa di toccante e interessante in questo film. Alla fine capiamo che siamo molto più simili, sono più le cose che ci legano di quelle che ci dividono”.
“La scena più toccante e commovente di tutte è quella nel pub – afferma il giovanissimo Mackay -, quando le donne cominciano a cantare “Bread & Roses” (che ha dato il titolo anche ad un film di Loach ndr.), la cosa più importante per me è quello che tutti, al di là di ognuno di noi, sentono. Ma ci sono state tante di queste scene”.
“Ci sono voluti vent’anni per riuscire a trovare un produttore – riprende Beresford -, è la prima sceneggiatura che ho scritto nella mia vita (ha iniziato come attore ma da allora ha lavorato per il teatro e la televisione ndr.), non so dire quanto sia stato difficile, sembra che i soldi non bastino mai. Tutti trovavano la storia bella, incredibile, straordinaria ma nessuno era deciso a investirne, forse prima non sarebbe stato possibile realizzarlo perché pensavano sarebbe piaciuto solo alla comunità gay e a chi era interessato all’impegno sociale o perché parlava del Galles, però parla di esseri umani e di tutto quello che ci lega e ci rende simili”.
“E’ interessante quando qualcosa di potente – prosegue – che ci spinge a combattere possa dar vita ad un evento politico-culturale. Credo che oggi la cultura sia importante, perché i politici si sono un po’ ridotti e non sappiamo bene chi ci governa, forse, le multinazionali, le banche. In quel periodo era così perché c’era lei, la lady di ferro. Penso che dopo aver visto un film come ‘Pride’ si possa immaginare i miei sentimenti, forse, oggi un film a favore dell’immigrazione non potrei scriverlo, perché ci vuole una visione internazionale, da cittadini del mondo. Questo invece è ‘Pride, solidarity and feeling’ (orgoglio, solidarietà e sentimento)”.
“Vedere poi dei minatori – aggiunge - arrivare con i pullman al Gay Pride londinese del 1985 è stata una pietra miliare nella storia della nostra società. L’incredibile differenza tra queste due comunità è difficile per noi da capire. Tutti i membri del LGSM avevano abbandonato le comunità operaie a cui appartenevano, sapendo che una volta dichiarata la propria omosessualità non sarebbero più stati accettati. Ci sono molte cose che oggi diamo per scontate, dimenticando come tutto fosse diverso una volta. Tutto ciò ha rappresentato una sfida per me e nella sceneggiatura ho cercato di far capire chiaramente come il Gay Pride fosse un evento politico e anche indossare un certo tipo di vestiti fosse un atto politico”.
“La scena dei baci paralleli (i giovani minatori e le ragazze e il primo di Joe/Mackay con un ragazzo nel locale ndr.) – confessa - è quasi successa per caso, come capita spesso, vengono da cose che nemmeno conosci, vengono fuori da più teste, sul set; la più bella secondo me è quando la coppia matura imburra i toast (il rappresentante sindacale e la moglie ndr.), ma me ne sono accorto dopo, non le avevo pianificato tutte”.
“Io ho avuto la fortuna di avere una famiglia molto aperta e disponibile – dichiara Mackay -, ho potuto capire qual era il clima politico, cosa volesse dire vivere allora, come poteva essere terrificante per un ragazzo scoprirsi gay. Ho cercato di fare il meglio, e ho ritrovato le mie insicurezze e sensazioni, e come attraverso l’incontro con questo gruppo puoi capire e poi scegliere”.
“Io provengo da una famiglia che mi ha molto sostenuto – ribatte Scott -, sono nato e cresciuto in Irlanda ma ora vivo a Londra. Una situazione come quella del mio personaggio deve essere devastante, mi piace perché è uno che perde la sua identità, non dice mai di essere gallese (alla fine torna dalla madre per riconciliarsi ndr.). Il rapporto tra i due personaggi è perché all’epoca erano dipinti ed etichettati come pervertiti, la gente li chiamava rifiuti della società, quale destino di vita potevano attendere. Qui sono visti con una certa comprensione rispetto ai sentimenti di allora”.
“Bisogna ricordare che oggi esistono associazioni che sostengono i rapporti dei gay con la famiglia, perché sono cose che succedono ancora, perché i pregiudizi e l’intolleranza sono sempre esistiti ed esisteranno finché non riusciremo ad accettarlo tutti, poter dire che fanno parte della società, altrimenti non riusciremo ad essere davvero protetti”.
“Oggi non ci sono più minatori in Inghilterra – afferma Beresford -, ma le reazioni del pubblico sono state incredibili, emotive, forti, forse tre o quattro volte queste emozioni fanno sì che il pubblico applauda al cinema. Grande è stata la reazione alla prima proiezione, quando i veri protagonisti e i minatori si sono ritrovati tutti insieme nella stessa sala dopo 30 anni, erano come rapiti, e alla fine si sono comportati come nel film, facevano dei discorsi e si divertivano, una grande emozione, poi al festival di Cannes (è stato accolto trionfalmente da critica e pubblico ndr.) sapete come andata”.
“I villaggi sono proprio morti, ma la gente ancora sopravvive lì, perché erano legati all’attività delle miniere, però sono e siamo riusciti a capovolgere la visione che si dava in Inghilterra della working class, perché fino ad allora venivano rappresentati come fossero bruti, persone da cui vergognarsi, dagli incontri, invece, abbiamo scoperto dei minatori colti, che apprezzavano la cultura, curiosi, esistevano posti dove poteva esprimersi, leggere delle poesie, dipingere (ancora in ‘Jimmy’s Hall’ ndr.); erano luoghi legati a doppio filo con l’attività mineraria. E poi lo spirito dei gallesi, sono vivaci, forti, pieni di umorismo, e la loro esistenza è ancora là”.
“Alla fine del film sul Gay Pride ‘85 quando alcuni dicono ‘non è politica, è solo una parata’ – continua -, è dovuto al fatto che una parte ha sostenuto la lotta dei minatori, un’altra si è allontanata dal movimento, specie oggi che c’è la tendenza a restare isolati, ma la gente non è stupida, la solidarietà rimasta in secondo piano poi emerge, ora si impegnano in battaglie online, perché ormai è difficile incontrare le persone per strada, però visto come i giovani hanno reagito all’idea di solidarietà proposta dal film è elettrizzante e sono curioso su come andrà a finire”.
“C’era una ‘Italian Connection’ – conclude lo sceneggiatore – e quando l’ho sentita raccontare sapevo già che questa storia sarebbe stata una commedia divertente, e dovevo decidere cosa togliere o meno, ma c’è una parte italiana che non ho potuto inserire: due membri del gruppo dei minatori sono venuti in Italia per raccogliere fondi, accolti dalla comunità italiana con tante donazioni e casse di cibo, perché facevano davvero la fame. Ma la pasta non l’avevano mai vista e nessuno sapeva come cuocerla, così tirandola fuori dalle scatole molti la mangiavano cruda; sull’olio oliva – con l’etichetta con fiori e una ragazza -, dicevano ‘sarà una bevanda’. Addirittura c’è stato chi ha fatto i fusilli fritti, oggi, invece, ci sono tantissimi ristoranti italiani e tutti sanno come cuocerla e mangiarla. E io sto qui oggi anche per dire grazie italiani per questa solidarietà Italy-Wales”.
E il regista che, purtroppo, nella capitale italiana non è riuscito a venire, dichiara: “Quello di ‘Pride’ era un copione a cui era impossibile dire no. Mi ha fatto ridere, mi ha sorpreso e divertito di continuo, e alla fine mi ha commosso. Combattere per il diritto di lavorare sotto terra in condizione spaventose sembra difficile oggi da capire, ma nell’84 i minatori sapevano che quello era tutto ciò che avevano, per la loro generazione e per quelle a venire. Ma il loro sciopero, ora lo sappiamo, non era solo una questione economica, bensì uno scontro chiave in una guerra ideologica più ampia: il bene comune contro l’interesse personale, la società contro l’individuo, il socialismo contro il capitalismo. Pochi anni dopo lo sciopero, Margaret Thatcher disse che non esisteva una cosa come la società, ma esistevano semplicemente degli individui e le famiglie. I protagonisti di ‘Pride’ credono fermamente il contrario, credono nella forza dell’unione. E non si tratta solo dell’unione tra due diverse comunità o tra due generazioni, ma di una solidarietà universale, in nome di un orgoglio che è diritto di tutti. Il fatto che oggi tutto ciò ci colpisca è la prova di quanto negli anni ci siamo allontanati da quello spirito”.
“L’uscita a Natale è dovuta al fatto che il cinema italiano riflette il modo di fare italiano – dicono i distributori di Teodora Film - se si è potente si esce, se non si è potente né ricatta la lotta è molto dura, però cercheremo di farlo vedere il più possibile in Italia, sono più orgoglioso, perché unisce l’impegno insieme all’humour, e speriamo di farlo arrivare in provincia poco a poco perché è un film necessario”.
José de Arcangelo
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