
al centro della seconda opera della regista libanese Nadine Labaki “E ora dove andiamo?”, nelle sale dal 20 gennaio distribuito da Eagle Pictures in 100 copie. L’autrice – della precedente “Caramel” - è passata a Roma per presentarla, dopo la calda accoglienza e il premio del pubblico ottenuto al Toronto International Film Festival.
“La danza iniziale (le donne in nero ndr.) – esordisce la regista - è ispirata a tutte le donne che hanno perso un figlio, per i loro figli perduti, per le loro sofferenze che di consueto esprimono in modo aggressivo e violento, si feriscono, si strappano i vestiti. E’ una danza del dolore, la mia ammirazione nei confronti di chi riesce a sopravvivere, ad andare avanti nella vita nonostante la grave perdita e il profondo dolore. Anche per questo ho dedicato il film alle nostre madri. Piccoli movimenti sincronizzati in un rituale della sofferenza che volevamo esprimere anche con la musica di Khaleb (Mouzamar, suo marito, autore della colonna sonora ndr.). C’è da dire che sono tutte donne che non sono né ballerine né attrici, di età e profili diversi. Abbiamo dovuto fare moltissime prove, ma alla fine, il risultato è un momento non soltanto favoloso, ma addirittura indimenticabile. Abbiamo girato questa scena il primo giorno di riprese, iniziando con un’inquadratura di grande effetto. La presenza di quelle donne, che si muovono in quel panorama, irradiate da quella magnifica luce, ti fa venire la pelle d’oca. Abbiamo

creato un’emozione che ci ha permesso di andare avanti con potenza”.
“Quello che sta succedendo al film è sorprendente soprattutto in Libano dove non abbiamo un’industria cinematografica – aggiunge -, è una continua lotta fare un film e riuscire a farla nascere. Questo ci sta aprendo tantissime porte e il fatto di una possibile candidatura all’Oscar (per il miglior film straniero ndr.), tutta questa esposizione, questa pubblicità ci fa pensare, sognare che anche il Libano potrebbe avere una vera industria cinematografica”.
“Non ho una risposta, una soluzione definitiva a questo conflitto – afferma -, nemmeno le altre donne. Ho cercato di raccontare le donne, non dico che possano essere veramente portatrici di pace. E’ una fantasia. La guerra è una totale assurdità, un male che infliggiamo a noi stessi per niente, o addirittura per cose per le quali non vale la pena uccidersi. E’ stata proprio la mia responsabilità di essere umano, di donna e di madre a farmi concepire questa assurdità in modo più forte rispetto a prima e ho capito che volevo affrontare l’ossessione materna per proteggere i propri figli. La guerra non è soltanto colpa degli uomini, c’è anche una nostra responsabilità, perché i conflitti non sono solo religioni, ma anche tra famiglie, vicini, etnie. Nascono persino salendo su un bus, tra persone che non conoscono nemmeno la faccia del vicino. Sento la mia responsabilità da donna, non per cercare di fermare il conflitto ma per cambiare le cose, di dare un contributo, un punto di vista sull’assurdità del conflitto, di trovare un modo di reagire di fronte all’assurdità. La mia esperienza in Libano, dove nel 2008 all’improvviso ci siamo ritrovati in guerra. La gente che aveva respirato la stessa aria, che aveva vissuto per anni nello stesso edificio, che era cresciuta insieme, magari anche frequentato le stesse scuole, improvvisamente stava combattendo contro altra gente, soltanto perché non appartenevano alla stessa comunità religiosa”.
Sui fatti recenti che hanno sconvolto il mondo arabo, la bella autrice, anche protagonista e sceneggiatrice con Jihad Hojeily e Rodney Al Haddad, dice:
“Sono molto orgogliosa delle primavere arabe perché le donne sono riuscite ad ottenere molto in questi movimenti, e dato che il film è stato scritto prima, mi piace credere di aver dato in un certo modo un mio contributo. Al contempo sono molto scettica sul come verranno gestite queste conquiste; il conflitto religioso tra cristiani e musulmani c’è sempre, e ci chiediamo ancora quando finirà”.
“‘La donna che canta’ mi è piaciuto molto e capisco perché il regista, come me, non abbia voluto citare il Libano. L’argomento guerra è molto delicato perciò bisogna evitare di raccontare eventi troppo specifici,

la propria posizione; perché soprattutto quando si parla di conflitti religiosi si tende a categorizzare (ci sono sunniti, sciiti…) eccessivamente, a ricollegarli ad un paese preciso e non si può dire con chiarezza quello che si vorrebbe dire. E così si cerca di renderli universali”.
“Il mio film ha avuto una grande accoglienza – afferma -, nel nostro paese non era mai stato raggiunto un tale successo, si può dire che sta diventando il film di una nazione, tanto che tutti fanno il tifo, pregano addirittura perché riesca ad avere la nomination agli Oscar. Perché non ce la fanno più, vogliono vivere in pace, visto che nel nostro paese ci sono addirittura 18 religioni diverse e hanno bisogno di avere una vita normale. E’ il loro film, il nostro film. Non c’è stata nessuna reazione negativa né dai cristiani né dai musulmani”.
Sulla scelta di girarlo in arabo dichiara: “Per me è stata una scelta naturale dato che è la mia lingua, ma anche perché per noi è facile parlare in inglese o francese che impariamo da ragazzini come seconda lingua. E’ importante perché spero che venga visto dal maggior numero di persone al di fuori del Libano, nella loro lingua e fuori dai cliché. Purtroppo l’immagine stereotipata del mondo arabo di solito non è bella né positiva. Voglio che il pubblico veda che anche da noi c’è gente bella, accogliente, spontanea.”
“Se a Hollywood mi lasciano fare quello che voglio fare perché no?” dice su una possibile chiamata dalla mecca del cinema. “Comunque non è un mio scopo, non voglio fare una pellicola grandiosa, ma flirtare con la realtà, sperimentare qualcosa, lavorare con persone con cui non ho mai lavorato prima. Mi piacciono le storie vicine alla realtà, che possano cambiare qualcosa, in cui il pubblico possa identificarsi, con cui rapportarsi e riflettere sulla propria esistenza. Voglio che il cinema diventi una nuova arma non violenta che riesca a cambiare la vita. Sarà un’idea ingenua, ma almeno ci provo”.
Sul collega palestinese Elia Souleiman confessa: “Elia è comunque un amico, il punto di vista comune, tra favola e umorismo, è quasi naturale, istintivo, per i registi della regione dato che la situazione in cui viviamo è talmente assurda che devi esasperarla con l’umorismo, fare ricorso alla fantasia per rendere le cose un po’ più irreali senza restare bloccati da situazioni politiche troppo specifiche che potrebbero suscitare la censura o una reazione negativa da parte del pubblico”.
Infatti, “E ora dove andiamo’” racconta la vicenda di un villaggio sperduto nelle montagne, in cui donne cristiane e musulmane uniscono le forze, ricorrono a diversi espedienti, facendo anche alcuni sacrifici, per foermare i loro uomini che cercano di uccidersi vicendevolmente.
“L’ironia si utilizza per affrontare le sfortune della vita – dice Nadine Labaki -, è una strategia di sopravvivenza, un modo per cercare di trovare la forza di riprendersi. In ogni caso, per me rappresenta una necessità. Desideravo che il film fosse una commedia più che un dramma e che riuscisse a provocare più risate che commozione”.

Inoltre nel film ci sono altri numeri musicali veri
“E’ una cosa che mi porto dietro dall’infanzia – conclude -, quando ero solita guardare musical come ‘Grease’ o i cartoni animati ‘Biancaneve’ o ‘Cenerentola. Non è proprio una commedia musicale ma, visto che non volevo fare un film politicizzato, i brani cantati e i balli mi hanno permesso di dargli un tocco fiabesco, da favola”.
José de Arcangelo
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