martedì 14 gennaio 2014

"Anita B.", dal romanzo di Edith Bruck un dramma di Roberto Faenza sul dopo shoah, la riconquista della vita dopo la morte da parte di un'adolescente

Approda in sala – dal 16 gennaio - il nuovo film di Roberto Faenza “Anita B.”, dal romanzo di Edith Bruck “Quanta stella c’è nel cielo” (Garzanti editore) – sceneggiato dall’autrice, con Nelo Risi e il regista -, che vanta un cast internazionale, ma ha incontrato i consueti problemi legati alla distribuzione, in parte risolti con l’uscita con Good Films. Un dramma sul dopo olocausto visto attraverso gli occhi di un’adolescente sopravvissuta al lager per niente disposta a dimenticare né tanto meno a rinunciare alla sua esistenza, al suo diritto di un futuro. “Nessuno è Biancaneve – esordisce la produttrice Elda Ferri (con Luigi Musini per Jean Vigo Cinema Undici) - se un film non esce con 01, Medusa o Warner, ha difficoltà enormi; i film sono molti, e devi affrontare da parte degli esercenti comportamenti gratuiti e violenti che non tengono conto della realtà, suppliscono alla carenza di sale facendo dei colpi di mano, ‘tolgo il tuo film e metto il mio’. E’ questo il vero problema del cinema nostro, perché tutti i film hanno il diritto di uscire. E’ un sistema che non ci permette di lavorare, altrimenti l’unica soluzione sarebbe non fare film”.
“Non mi piace l’idea di fare la vittima – ribatte il regista -, l’equivoco nasce dallo spunto del film: una ragazzina uscita da Auschwitz, fatto che provoca un po' di terrore negli esercenti. L’equivoco è che non sanno che si tratta di un film sul dopo, fanno come certi commercianti che mettono la merce non in vista, e sono in torto verso il pubblico. Infatti, anch’io all’inizio non volevo leggere il libro di Edith, perché ho già fatto un film sull'olocausto, ‘Jona che visse nella balena’; poi, immerso nella lettura, mi sono reso conto che non è la solita storia sui campi di concentramento, ma di una vicenda che il cinema ha trattato pochissimo, il dopo shoah. Una ragazzina dall’incredibile candore i cui parenti non l'accolgano come lei si aspetta. E’ quello che accade in ‘Napoli milionaria’, Eduardo torna dalla guerra ma nessuno ne parla, perché un po' se ne vergognano. Un po’ come diceva un compagno di Primo Levi ‘Dio ha dato all’uomo la dimenticanza, un angelo accosta i bambini per ricordare, un altro invece tappa loro la bocca per dimenticare. Certo anche gli altri hanno diritto all’oblio...”. Anita (Eline Pozell) è, infatti, sopravvissuta ad Auschwitz e viene accolta dall’unica parente rimasta in vita: Monika (Andrea Osvart), sorella di suo padre, che non vuole essere chiamata zia e vive l’arrivo della nipote come un peso. Anzi, vuole ‘dimenticare’, mentre per Anita il passato è la sua anima, quella che le dà la forza e l’energia per andare avanti e far avverare i sogni. Ma instaura un rapporto col fratello di Aron (Antonio Cupo), marito di Monika, il giovane Eli (Robert Sheehan, protagonista del fortunato serial ‘Misfits’), la cui filosofia spiccia afferma che ‘gli uomini tirano giù i calzoni, mentre le donne pensano all’amore’.
“Ho voluto farlo a tutti i costi perché il romanzo ungherese e anch’io sono di origine ungherese - confessa Andrea Osvart – e ho fatto in modo che Roberto pensasse che non ci sia un’altra attrice capace di fare di meglio. Mi sono detta ‘devo farla bene’, ho avuto però tanta paura perché è un ruolo contraddittorio, una donna che ha tanta rabbia e dolore dentro; ha scelto di non vedere, ma si sente che ha vissuto la guerra, che è stata allontanata dalla famiglia, dal suo ambiente. Una donna chiusa, indurita dal dolore e dalla mancanza di affetto. Coscientemente volevo cambiare il mio percorso (dice sulla televisione e la partecipazione anni fa al Festival di Sanremo ndr.), da sempre volevo fare l’attrice, e ho fatto la valletta di Sanremo come fosse un altro ruolo. Non sono una fan della tivù, ma ci sono voluto due o tre anni per ripartire. Sono stata in America per due anni, poi sono tornata e ‘Maternity Blues’ mi ha un po' riportata al cinema”. “Nel libro Eli è, forse, più negativo che non nel film – afferma Faenza -, purtroppo Edith Bruck è rimasta a casa con Nelo Risi per non lasciarlo solo, e le dispiace non essere qui con noi. Ho dato un tratto non tanto negativo al personaggio; è un ragazzo molto giovane venuto fuori da una prova molto dura, ha sposato una filosofia molto materialista, ma è anche umano, non un tronco di legno. Questa ragazzina ha 14/15 anni ed è il primo ragazzo che incontra, poi Eli è più bello di me – scherza -, infatti, stasera arrivano a Roma cento fan di Robert e qualcuna dormirà all’addiaccio per vederlo all’anteprima. Tornando ad Anita, capisce che questo ragazzo ha messo in pratica la sua fantasia, e si rende conto che non coincide con la sua e se ne va”. “C’è un'immagine del muro del pianto – prosegue sulle riprese -, non ho pensato di girare lì perché la protagonista vede la Palestina come un sogno; è un po' soggettivo, non mi è venuto memmeno in mente, anche perché non so cosa farà lei dopo”.
“In un certo senso Eli è negativo perché non si pone il problema – dichiara Sheehan -, non sente la pesantezza, la gravità delle conseguenze della guerra. Per lei è il primo ragazzo che incontra, uno che può provocare dolore e sofferenza, ma non credo sia importante un personaggio solo negativo. In ogni caso, dovevo affrontare quelle che potevano essere le sue ragioni, le motivazione; lui approfitta del suo charme per conquistarla, ma non è solo questo. Se fosse un personaggio totalmente oscuro non sarebbe bello rappresentarlo. L’uomo è fatto di luce e ombre, non tutto è oscuro, in fondo è una vittima anche lui, ha visto morire la fidanzata in maniera orribile, non ha più fiducia nel mondo, perciò dice ‘l’ultima cosa che voglio fare è mettere un figlio in questo mondo. Lui è convinto che dopo la guerra tutti si odino, allora perché farlo se non si fida di nessuno”. “Il film esce nel periodo del giorno della memoria, e proprio il 27 ci sarà una cosa importantissima a Gerusalemme, dove verrà presentato in anteprima per la giornata nel museo della shoah. Abbiamo voluto anticipare un po’ l’uscita perché non fosse visto solo come un film sull'olocausto. Non si può parlarne sempre, e poi la gente dice ‘un altro film sull’olocausto’, ma non è. Questo paese deve sentire quello della memoria come un problema importante soprattutto per le cose più recenti, perché ne sono state sepolte tante, le stragi, gli attentati. Il nostro è un paese davvero senza memoria, ha dei grossi problemi, ed è la tivù la nemica numero 1 della memoria, le cose che fa vedere non se le ricorda più nessuno. Il cinema, invece, riesce ancora a ricordare, anzi è l'esercizio della memoria”.
“All’inizio pensavo fosse un ruolo molto pesante, difficile – dichiara Eline Powell -, nel senso di dimostrare di poter farlo nelle poche scene del provino, perché allora non ero in grado di capire il viaggio che aveva fatto Anita. Dopo alcune settimane, quando ho letto l’intero copione, ho capito che era un personaggio molto bello e quale viaggio emotivo avesse fatto questa donna. Infatti, non vediamo Auschwitz perché se lo porta dentro. Ho fatto delle ricerche in un campo di concentramento in Belgio, un’esperienza che non dimenticherò mai; perché a scuola avevo studiato i dati, le statistiche, l’orrore, ma qui ho potuto vivere di persona questa storia. La sfida di lei è l’essere sopravvissuta a tutto questo orrore e a darsi una speranza. Roberto mi ha aiutato a scoprire lo spirito di sopravvivenza che era in lei. Eli all'inizio è completamente negativo, ma c'è stato il fatto che lei ha vissuto tutta la vita in un campo di concentramento dove erano tutte donne; una volta uscita incontra un ragazzo brutale, tutt'altro che romantico, ma bello, misterioso, affascinante e lei, non follemente, se ne innamora. Anche gli altri attori, Andrea, Moni, Antonio mi hanno aiutato tantissimo ad interpretare Anita che è una ragazza che non sta in un angoletto a piangere, ma vuole l’amore, riacquistare quello che ha perduto, guardare verso il futuro, e ricominciare daccapo”. “Il mio personaggio è buono, particolare, a cui non sono abituata – confessa Jane Alexander che è Sarah, sorta di ‘traghettatrice’ che organizza l’esodo verso la Palestina -, e Roberto mi disse che dovevo avere una pistola da non usare. Sarah è la persona che esaudisce il desiderio di chi vuole tornare a casa, una donna forte, con le palle che vorrei avere – ironizza -; e sono contenta perché Faenza mi fa fare il cinema”.
“Sono debitore a Roberto di avermi fatto vivere questo film – afferma Moni Ovadia nella parte dello ‘zio’ Jacob, coscienza critica della comunità ebraica -. Non mi sento meritevole, perché mi occupo di ebraismo e per me tutto questo mi è familiare; e gli ebrei ungheresi non parlavano yiddish, perciò Jakob rappresenta qualcuno venuto da un altrove rispetto alla storia; non ha attraversato il lager, forse è stato un combattente del centro-est dell’Europa. Il suo compito è restituire fiducia nella vita, ma non è un sionista; vuole aiutare tutti quelli che vogliono fare delle scelte, la sua è una visione bonaria, riportare la gente alla vita, offrirle la possibilità di vivere, e un ritorno alla vita nonostante l'orrore, quando l’ebraismo celebrava la centralità dell’uomo fragile. Jakob dà una mano a chi ha bisogno, e attraverso la cultura, la sua musica, afferma che l’energia vitale non è estinta”. “Ringrazio Faenza per avermi scelto per questo ruolo – chiosa Antonio Cupo che è Aron -, dopo tre anni vissuti in America, ho avuto una grande esperienza. Il mio personaggio è molto positivo, dà sollievo e speranza soprattutto ad Anita, una bellissima esperienza”.
“Il film non soltanto affronta il problema della capacità dell’uomo di riscoprire la vita e la gioia – dichiara Paolo Buonvino, autore delle musiche -, ma anche della persona stuprata che sopravvive ad Auschwitz, di chi non ha lavoro. Si trattava di riscoprire la vita, la musica non da un punto di vista etnico né filologico, ma attraverso le sensazioni e la capacità di questa ragazza di vedere oltre, quello che le viene negato. Un parallelo con la violenza di cui la donna evita parlarne, e rivolta verso la vita, un luogo ideale/casa, di una ragazza incinta che protegge la vita contro chiunque. Spero di aver dato questo sapore nella musica, la gioia di una possibilità di vivere oltre la tragedia. I produttori sono persone eroiche, perché questi film non hanno aspettative facili, è auspicabile che nel nostro paese in particolare si possano dire della cose e incoraggiare a farlo”. “E’ una via di mezzo fra ‘Prendimi l’anima’ e ‘Jona’ – conclude il regista -, questa ragazza che tenta di ricostruirsi una identità, è un po' la figlia di Sabina Spielrein. Da qui lo spunto per una conclusione ideale, comune al tragitto di due donne coraggiose e indomite: ‘un viaggio verso il passato con un solo bagaglio: il futuro’. Che è la frase con cui si chiudono gli ultimi fotogrammi. Sono contento – dice, infine, sulla nomination all’Oscar per ‘La grande bellezza” -, anche perché qui si dice che ‘quando uno ha successo, l'altro sta male’, invece serve a far uscire altri film italiani in America e non solo, perché negli Stati Uniti i film non americani sono qualcosa come lo 0,4%”.
“Ho lavorato spesso con 01, stavolta solo con Rai Cinema – chiude la Ferri -, e sicuramente avranno un listino enorme, ma lo sapete benissimo qual è il destino di tutte le produzioni indipendenti, è strano che vi si stupisca, se non si è disposti ad aprire il discorso su un problema non risolto, di puro potere. Chi fa un’operazione del genere non risolve problema, anzi, la volontà non c'è e lo si vede. Abbiamo il dovere di fornire e offrire un’ampia gamma di proposte, noi ci lavoriamo anche scuole. E’ difficilissimo fare il produttore indipendente, è un problema nel senso di fare questa fatica, di risolvere i problemi a monte. La Good Films si sta dando da fare, ci sbatte la faccia contro chi dice che non cambia niente. Sarà distribuito in America come il precedente (“Un giorno questo dolore ti sarà utile” ndr.), altri mercati stanno discutendo adesso col distributore internazionale”. José de Arcangelo

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