venerdì 11 aprile 2014

Anche nel "Grand Budapest Hotel" c'è gente che viene e che va ma sono i clienti che frequentavano Lubitsch e von Stroheim

Il riferimento è il cinema del maestro incontrastato Ernst Lubitsch, soprattutto le sue commedie, magari contaminate da certe atmosfere del visionario Eric von Stroheim, però rivisitato attraverso la lente d’ingrandimento - distorta e personalissima - dell’ironico Wes Anderson. Infatti, stiamo parlando della suggestiva e travolgente commedia surreal-corale del più fantasioso e creativo dei registi hollywoodiani dell’ultima generazione: “Grand Budapest Hotel”, che
ripropone fin dal titolo un classico del genere, quello del “Grand Hotel”, gente che viene e che va, celebre libro di Vicki Baum e film di Edmund Goulding, (1932) che però era un mélo con cast ‘all stars’ (dalla divina Greta ai fratelli Barrymore, passando per una pressoché esordiente Joan Crawford). Il fatto che accomuna tutti sono però gli anni Trenta, ovvero quelli che precedettero la decadenza definitiva di un’Europa, in un certo senso spensierata e ancora sulla scia della belle époque, destinata ad un tragico destino segnato dal nazismo e dalla Seconda guerra mondiale. Non a caso l’autore stesso confessa che il suo ottavo film “nasce da un mix di ispirazioni, tra cui le commedie degli anni '30 e le storie e le memorie dello scrittore viennese Stefan Zweig”.
E Anderson - come Lubitsch - fa ‘vedere’ la Storia attraverso i personaggi di allora e di trent’anni dopo, e ancora oltre, sullo sfondo di una favola ancorata alla realtà, dove i paesi e gli eventi immaginari prendono spunto dal Passato del vecchio continente.
Partendo nell’85 da una lettrice del romanzo omonimo, per poi passare allo scrittore (Jude Law prima e Tom Wilkinson dopo) in cerca d’ispirazione in un posto sperduto e lontano dalla pazza folla che scopre il solitario hotel sul cucuzzolo di una montagna e ‘l’idea’ nel nuovo proprietario che gli racconta la sua storia, Anderson (anche autore del soggetto con Hugo Guinness, e sceneggiatore) narra le avventure di Gustave H (un sorprendente ed inedito Ralph Fiennes), il leggendario ‘concierge’ del lussuoso e famoso albergo europeo del titolo e di Zero Moustafa (Tony Revolori da giovane e F. Murray Abraham trent’anni dopo), un fattorino che diviene il suo più fidato amico e più tardi suo ‘erede’.
Sullo sfondo, il furto e il recupero di un celeberrimo dipinto rinascimentale, la violenta lotta per un'enorme fortuna di famiglia, ed una dolce storia d'amore del fattorino con la pasticcera (Saoirse Ronan). Il tutto tra le due guerre, mentre il continente è in rapida e radicale trasformazione, vista l’ascesa e la minaccia delle ZZ (leggi SS). Un andare indietro nel tempo per riflettere sul presente, un rivangare il passato per capire il futuro, il tutto ricostruito con la leggerezza di un’operetta senza musiche (altro ‘genere’ molto sfruttato dal cinema negli anni Trenta), col gusto del grottesco e il piacere delle commedie sofisticate per parlare di amicizia, solidarietà e onore.
E se la storia può sembrare in fin dei conti esile, ciò che conta veramente sono le atmosfere e soprattutto i personaggi, gustosi e favolisticamente umani, con pregi e difetti. Da ‘operetta’ di gran classe. Del cast mozzafiato, tra attori feticcio e new entry, fanno parte anche un’irriconoscibile e invecchiata Tilda Swinton, Mathieu Amalric, Adrien Brody, Willem Dafoe, Jeff Goldblum, Bill Murray, Edward Norton, Jason Schwartzman, Léa Seydoux e Owen Wilson. José de Arcangelo
(4 stelle su 5) Nelle sale dal 10 aprile distribuito da 20th Century Fox Italia

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