mercoledì 16 aprile 2014

Carlo Mazzacurati ci ha lasciato in eredità un'esplosiva commedia per seppellire crisi e frustrazioni: "La sedia della felicità" non è altro che amore per il cinema e per la vita

Tutt'altro che pessimista o triste, l'ultimo film del rimpianto Carlo Mazzacurati, scomparso nemmeno quattro mesi fa, "La sedia della felicità" che, dopo l'anteprima al Torino Film Festival, arriva nelle sale dal dal 24 in oltre 150 copie distribuito da O1. Una commedia vitale e di graffiante ironia che coinvolge e diverte, senza trascurare il tocco di attualità e 'la morale della favola', già perché sebbene prende spunto dal noto "Il mistero delle 12 sedie" di Ilya Ilf e Evgenij Petrov, portato sullo schermo diverse volte - la più famosa versione firmata Mel Brooks (1970) con Dom DeLuise, Ron Moody e Frank Langella -, i disperati alla caccia del tesoro sono tre persone frustrate dalla realtà contemporanea e oppresse dalla crisi globale.
Ma cosa trasmetteva il regista, cosciente della sua malattia, durante la lavorazione? "Un grande entusiasmo nonostante tutto - esordisce Valerio Mastandrea -, avrei voluto lavorare con Carlo prima, lo speravo da vent'anni, perciò quando lui mi ha chiamato mi sono sentito pronto, due mesi di lavorazione indimenticabili, quanto mi mancherà come regista e uomo di cinema, perché amava il cinema molto più di come possa fare io, e con lui parlavamo del mio personaggio in terza persona, parlando di Dino come di uno che camminava per strada e conoscevamo, e così c'era una sorta di scollamento da parte mia dal personaggio. Neanche lui mi vedeva come Dino, nel suo e nel mio immaginario era proprio un altro, quindi parlavamo in questa maniera, tant'è che avrei voluto usare questo metodo prima e spero di riprodurlo se continuerò a lavorare". "Un cast straordinario, ha voluto vicino a sé tutti gli attori che amava di più - ribatte Giuseppe Battiston -, ci sono camei preziosi. 'Pensavo di far fare questo personaggio a Silvio (Orlando), e l'altro a Fabrizio (Bentivoglio), poi chi vuoi che dica di no a un povero malato', mi raccontava Carlo. A me pare che mettesse tantissimo spirito nel modo di affrontare il mestiere, la sua vita, il suo mondo. La sua visione era quella dell'occhio umano e mi sono divertito, mi mancherà moltissimo".
"Per poco tempo, un incontro importante - dichiara Isabella Ragonese -, ma evitiamo il discorso retorico, visto che anche lui era allergico alle frasi fatte che si possono dire in questi casi. Ho dei ricordi molto belli, dal punto vista lavorativo mi manca, certo. Una cosa molto bella che mi ha insegnato il lavoro con Carlo, è che il nostro mestiere in qualche modo ci fa vivere per tanto tempo, infatti, rivedendo i suoi film posso risentirlo vicino a me. In questo suo ultimo film si ride, non per finta, non è una risata forzata. Aveva un suo punto di vista per vedere le cose dalla giusta distanza, l'ironia era i suoi occhiali per vedere il mondo, l'altra grande qualità è che quando fai un mestiere con passione ti dimentichi di tutto, perciò non ho mai percepito le difficoltà. Negli ultimi mesi non siamo stati in ospedale, ma facendo insieme a lui le cose che amava con le persone che amava, lo ricordo col sorriso, senza malinconia". "Il personaggio è nato proprio con Carlo - dice l'attrice sulla sua Bruna, l'estetista -, costruiva divertendosi fisicamente ed esteticamente i personaggi, io l'avevo pensato molto colorato, quasi uno sponsor dello smalto Chartouche, capelli a metà (cioè con colpi di sole), tutta la preparazione è stata via skipe, provavo parrucche, delle cose. E' un po' come un personaggio de 'La Passione' cadeva la linea, oppure non c'era; poi è cresciuto sul set. Le ragazze incassano tutte le lamentelle delle persone, che si sfogano, parlano, all'improvviso Bruna ha l'occasione di essere protagonista di una storia. Il passaggio da povera, rifugio delle disgrazie dei clienti, la spinge a dire 'voglio vivere io'. I riferimenti sono i film d'animazione, ho capito che Bruna somiglia alle eroine dei film di Miyahazaki, ragazze dall'età indefinibile che si ritrovano al centro di avventure fiabesche, rocambolesca; inscindibile dal personaggio di Dino. Trovo molto bella la scena in cui si guardano attraverso il vetro dei negozi (ovviamente nata da Carlo), sta ragazza magra".
"Abbiamo lavorato insieme negli ultimi dieci anni - afferma la sceneggiatrice Doriana Leondeff -, il desiderio di leggerezza di questo film viene da lontano, è precedente alla malattia, quando ha fatto la prima stesura della sceneggiatura non sapeva di essere malato, poi quando è successo quello che è successo, in quel suo modo paradossalmente ottimista, lavorava con lucidità e buon umore. Quello che era inutile l'ha tolto, voleva arrivare al cuore allegro delle cose. Anche inizialmente il titolo 'Regina delle nevi' ci piaceva a tutti ma, forse, non rappresentava fino in fondo il film, poi è arrivato il suggerimeto e Carlo l'ha preso al volo, tanto che il trailer è stato costruito sul titolo. Il fatto che l'abbia trovato un bambino (il figlio del montatore ndr.) lo riempiva di gioia. Stavamo già scrivendo altro e anche lì Mastandrea avrebbe avuto una parte. Era consapevole della malattia, perciò si stava pensando ad un film piccolo da girare in Toscana, tra vino, senegalesi e diseredati, così Mastandrea e gli altri sarebbero stati a loro agio più vicino a Roma, anzi allla Garbatella. Il soggetto stava prendendo forma, dai racconti di Celati, un materiale molto vivo ma ancora lontano di avere compiutezza". "La riflessione prima di ammalarsi, forse, lo ha stimolato - ribatte il co-sceneggiatore Marco Pettenello -, non credo sapesse che sarebbe stato il suo ultimo film, credo invece abbia pensato 'forse lo potrei finire', e ha accelerato certe riflessioni, descritto il disagio, la fatica di abitare in questo film, di un paese andato in malora; da un certo momento in poi si è concentrato sull'ottica da centrocommerciale, di preti in disgrazia, della crisi, visto che era quasi inutile parlarne male, una storia di destini amore e rabbia che puoi raccontare ad un bambino, quasi bizzarramente una sorta di 'Fantastic Mr. Fox, sullo stesso mondo di 'Piccola patria', la voglia di vedere anche quella vita in modo diverso, che fa pensare alle 'escursioni' di Zavattini e De Sica. E' la terza commedia che facciamo insieme, è un film allegro in cui calava un'amara malinconia, tutto fatto da un unica pasta, non stupido ma spensierato, non sapevamo nemmeno noi che sarebbe stato l'ultimo, si intrapprende un cammino purché finisca in allegria".
"La prima volta avevamo deciso per 'La regina delle nevi' (sul finale in montagna, c'è una capella con la Madonna del titolo ndr.), poi in ufficio - racconta il produttore Barbagallo - era rimasta una sedia in legno masello, progettate da Basili, che Carlo ha regalato proprio al figlio del montatore, un bambino di quattro anni che ha trovato il titolo del film. Io sono sempre stato un suo fan, sono andato in campagna per il montaggio, il titolo non gli piaceva e il piccolo gli ha suggerito 'La sedia della felicità'. Carlo era così, dallo stesso tono allegro, scanzonato, ironico che c'è nel film. Il primo impatto è la leggerezza, ha radici solidissime, è un raccontatore straordinario, spesso quando eravamo seduti insieme per cena in salotto, visto che era un bugiardo pazzesco, raccontava storie che poi dimenticava, credo che questa sia l'opera che lo rappresenta di più". "L'orso - prosegue sul 'personaggio' simbolico, quasi suo alter ego - era una cosa cui teneva moltissimo, e l'abbiamo assecondato. Allora non avevo capito bene, poi ho capito che è Carlo, e ci dice come vedere il film, infatti, allarga le braccia come per dire 'cosa dobbiamo fare'. Quello che lo doveva interpretare era un signore troppo caro, uno di Baltimora negli Usa. Era partito con le casse con i pezzi del costume e si era persa la cassa con la testa dell'orso, e aspettava che arrivasse, e ogni volta cge tornavamo albergo ce lo trovavamo lì. Campa molto bene, Carlo ha girato un sacco di cose con l'orso". "Inizialmente c'era solo nella scena rarefatta dalla funivia - ribatte Leondeff -, ma se c'era difficoltà produttiva Carlo doveva trovare un'idea migliore. La scena del prete che li insegue in motorino era improbabile, e così trova un ostacolo: un orso. Era nato così, poi è diventato una piccola metafora, siamo sempre fedeli alla sua regola: una volta entrato in scena farlo restare di più. Lo spunto dal romanzo russo è pochissimo, se non la ricerca del tesoro nascosto in una sedia, ci sono due o tre assonanze, ma bisogna ricordare che il è ambientato subito dopo la Rivoluzione, nei primi anni, quando si nascondevano i gioielli per mettere in salvo il tesoro dai comunisti, un periodo di grande passaggio e crisi. I nostri personaggi alla ricerca del tesoro rivelato in punto di morte da una ricca signora (ottimo cameo di Katia Ricciarelli ndr.), anche noi dopo, sebbene la rivoluzione in questo paese non è mai stata, affrontiamo un periodo di grossa crisi e difficoltà del vivere ed è sullo sfondo di questa storia".
"E' ispirato al romanzo russo 'Le 12 sedie', di cui oltre il film di Brooks, ci sono uno cubano ("Las 12 sillas" di Tomàs Gutierrez Alea ndr.) e l'altro italiano ("Una su 13" di Nicolas Gessner con Vittorio Gassman, Orson Welles e Sharon Tate ndr.) - ribatte Pettenello -, ma non ho visto nessuno e nemmeno ho letto il libro perché Carlo mi disse 'lascia perdere che ti incasina'. La sua idea di cinema era meno europea, e più americana, ma sulla scia dei Coen e Wes Anderson, e voleva portarla verso di sé, sui cartoni animati, aveva meno paura del cinema artefatto. Il prete che sale in funivia è una sorta di sortilegio, era qualcosa che c'era già ne 'La lingua del santo', e credo avrebbe continuato su questa strada almeno per un po'. Esce dal desiderio di essere dentro un mondo profondamente nei guai, di raccontare qualcosa di lieve, un racconto popolato di esseri umani che sognano la redenzione, amano, cercano la felicità". "Ho passato vent'anni portando in scena le mie caratteristiche - riprende Mastandre -, facendo finta di essere 'quello', è stato forse il completamento di un certo tipo di personaggio sa portare in scena, un po' lo Stefano Nardini di 'Non pensarci'. Un personaggio come quello non te lo levi mai di dosso, è universale e per sempre. Come da ragazzino all'inizio, dopo i primi film avevo esaurito lo stereotipo e mi offrivano sempre il ruolo del ragazzo di periferia, ma ho chiuso il cerchio rispetto a personaggi del genere, ci sono sempre piccole sfumature da aggiungere, un po' gli assomigli, forse sono più freddo, più passivo e meno isterico. A volte non mi va di lavorare, e quando mi va di lavorare non c'è lavoro, la scelta uno la fa a seconda del momento". "Aveva in testa in modo preciso i personaggi - aggiunge Barbagallo -, li amava nel bene e nel male, ha contribuito a fare degli attori, e nel film ci sono tutti, credo manchi solo Marco Messeri (ma la sua voce, è fuori campo alla fine ndr.). L'originalità è che sono strampalati ma veri, poi c'è un cast formidabile, tanto cinema italiano buono. Il primo giorno abbiamo girato con Bentivoglio e Orlando, e ci siamo tutti molto divertiti, poi ci sono anche attori veneti (Mirco Artuso e Roberto Abbiati, i fratelli montanari ndr.), che hanno fatto un lavoro pazzesco, in realtà sono coltissimi e raffinati. I disegni della balena (per i tatuaggi ndr.) sono stati fatti da Albiati".
"E' stata un'occasione davvero unica - conclude Battiston sul suo prete -, indossare quei panni non ti capita spesso, porta una disperazione nuova, quella di unire la sua disperazione materiale con quella della sua fede, alla ricerca di un riscatto della propria vita in tutti i modi. Questa tipologia di personaggi appartiene alla commedia italiana, la possibilità di elevarsi attraverso cose più o meno lecite o fattibili. Ho ritrovato, come aveva detto Carlo, una dimensione da cartone animato anche nel montaggio, una dimensione narrativa dei personaggi in giro sui mezzi più strani, una struttura liberissima, bellissima per me. Ho goduto di qualcosa di nuovo, anche padre Weiner era piuttosto delicato e me ne parlò moltissimo, di mettere l'accento sul conflitto che si creava in un uomo di fede tra il suo desiderio di qualcosa di migliore e il rapporto con la propria fede. E Carlo si confrontava con se stesso, aveva anche il pensiero che il prete si trovasse ancora nel bosco a giocare briscola con l'orso". Quindi, Mazzacurati ci ha lasciato una miscela esplosiva di vero cinema e divertimento, in una commedia che ci fa ridere anche di noi stessi, della crisi e della disperazione, convincendoci che – nonostante tutto - è meglio sopravvivere, anzi far morire dal ridere tutti i guai del nostro paese e della nostra esistenza. E, come di consueto, ottiene il meglio di un nutrito e variegato cast che, oltre al terzetto protagonista Mastandrea-Ragonese-Battiston, offre cameo inimitabili: Katia Ricciarelli (Norma Pecche), Raul Cremona (mago Kasimir), Marco Marzocca (fioraio extracomunitario), Milena Vukotic (Armida Barbisan, la medium), Roberto Citran (pescivendolo), Maria Paiato (la sorella), Mirco Artuso (Bepin Lievore), Roberto Abbiati (Giani), Lucia Mascino (Elisa), Natalino Balasso (Volpato), Giusy Zenere (Katia) e l’amichevole partecipazione di Antonio Albanese (i gemelli), Fabrizio Bentivoglio e Silvio Orlando (televenditori ‘d’arte’). José de Arcangelo
(3 1/2 stelle su 5)

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