giovedì 8 gennaio 2015
"White God" di Kormél Mundruzcò, un'inquietante dramma thriller contemporaneo che diventa metafora della società contemporanea
Presentato e vincitore nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes, “White God” è il quarto lungometraggio dell’ungherese Kormél Mundruzcò e il primo ad approdare nei cinema italiani. Il film ha vinto anche la Palm Dog, mentre le tre precedenti opere del regista sono passate, la prima, a Locarno (“Pleasant Days”, Pardo d’Argento) e le successive due sempre (“Delta”, premio Fipresci, e “Tender Son - The Frankenstein Project” nel concorso ufficiale) alla Croisette.
In bilico fra dramma (metaforico) d’attualità e horror ecologico, “White God”, colpisce perché in realtà si tratta di un inquietante specchio della società contemporanea che, lanciando decreti e provvedimenti apparentemente innocui, finisce spesso per acutizzare conflitti e condizioni sociali, non ultima la cosiddetta “guerra fra poveri”.
Nel favorire i cani di razza, la nuova legge prevede una gravosa tassa sui cani mettici (vi ricordate la proposta fatta da noi di tassare gli animali domestici che, paradossalmente, spingerebbe ancora di più ad abbandonarli?), i padroni, infatti, cominciano ad abbandonare i loro bastardini e i canili diventano presto sovraffollati.
Alla tredicenne Lilli (Zsofia Psotta), però, il procedimento sembra crudele e senza alcun senso, tant’è che quando il padre Daniel (Sandor Zsoter) lascia per strada il suo amato Hagen (Luke e Body), la ragazzina è devastata e detesta il padre che le ha fatto tradire l’amico a quattro zampe.
Ma Lilli non si rassegna e cerca disperatamente Hagen, il quale altrettanto disperatamente cerca di tornare a casa da lei. L’odissea del cane diventa man mano sempre più pericolosa, passando da un barbone sfruttatore ad un addestratore di cani da combattimento. Riuscito a fuggire, il cane si unisce ad un gruppo di cani randagi, ma insieme finiranno presto canile dove la loro fine sembra segnata. Però riusciranno a fuggire e si ribelleranno contro l’intero genere umano, guidato proprio da Hagen…
Un’inquietante metafora che mette a fuoco come la nostra società stia diventando una vera polveriera dove basta una scintilla a provocare un incendio difficile da spegnere. Peccato che Mundruzco non riesca a trovare il giusto equilibrio fra dramma e thriller orrorifico, probabilmente, perché non osa andare fino in fondo, oltre i confini di entrambi per fonderli. Comunque, la storia coinvolge perché i riferimenti alla quotidianità sono comuni a tutti, anzi universali.
“E’ un racconto ammonitorio sul rapporto tra le specie superiori e i loro disgraziati subalterni – dichiara il regista. ‘White God’ è ispirato principalmente dalle insensate e sempre più rancorose attuali relazioni sociali. A mio avviso, parallelamente ai discutibili vantaggi della globalizzazione, si va definendo in maniera sempre più netta un sistema di caste: la superiorità è diventata il privilegio dei bianchi nella civiltà occidentale ed è quasi impossibile per noi non trarne profitto. Sì, noi. Dopo tutto siamo i membri di questa moltitudine privilegiata.
Perciò volevo realizzare un film che permettesse di lanciare uno sguardo sulle passioni che infuriano dall’altro lato, che critichi la nostra detestabile sicurezza piena di bugie e di verità squilibrate, orientata all’addomesticamento delle minoranze mentre in realtà quello che desidera veramente è distruggerle, negando in maniera ipocrita le disuguaglianze e non credendo né nella pace né nella possibilità di una convivenza pacifica”.
Ma secondo noi non si tratta ormai, o non solo, di una questione razziale ma quella eterna della supremazia del potere (economico) sui più deboli e diseredati, che va al di là delle etnie e delle culture. E il rapporto tra Lilli e Hagen sottolinea amicizia e solidarietà, fiducia e ribellione, sentimenti che ci accomunano tutti anche se spesso vengono trascurati o addirittura dimenticati.
“Ciò nonostante ho scelto come soggetto gli animali – conclude, infatti, l’autore, anche sceneggiatore con Kata Weber e Viktoria Petranyi – invece delle minoranze. L’ho fatto perché volevo focalizzarmi liberamente su questo tema delicato; liberamente e con il minor numero possibile di tabù. Quindi racconto una storia di animali, una specie a cui non è più riconosciuto il ruolo di miglior amico dell’uomo”.
Anche perché si tratta di un rapporto meno ambiguo, in questo caso sicuramente istintivo, dove non si rischia di cadere in ideologie e retorica. Bellissima la sequenza iniziale dei titoli di testa - che fa parte e rivedremo nel pre-finale -, in cui Lilli in bicicletta incrocia il branco ribelle sulle strade del centro storico della città ed è costretta ad unirsi a esso, non sappiamo se inseguita o affiancata.
Nel cast anche Szabolcs Thuroczy (anziano), Lili Monori (Bev), Laszlo Galffi (maestro di musica) e Lili Horvath (Elza, la madre).
José de Arcangelo
(3 stelle su 5)
Nelle sale dall’8 gennaio distribuito da Bolero Film
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