martedì 19 gennaio 2016

Dopo il Grand Prix al Festival di Cannes, il Golden Globe e la nomination agli Oscar arriva nei cinema italiani "Il figlio di Saul" dell'ungherese Làszlo Nemes con Géza Roehrig, l'olocausto visto da un punto di vista diverso e toccante

Ancora un dramma sulla Shoah ma vista dall’interno – del lager e dell’anima – di un uomo, Saul Auslander (camaleontico ed inimitabile Géza Roehrig, attore, regita e poeta), che fa parte del Sonderkommando di Auschwitz, i gruppi di ebrei costretti dai nazisti ad assisterli nello
sterminio degli altri prigionieri. Però, mentre lavora in uno dei forni crematori, Saul scopre il cadavere di un ragazzino in cui crede di riconoscere suo figlio. Allora tenterà l’impossibile per salvare le spoglie e trovare un rabbino per dargli almeno una dignitosa sepoltura. Ma per farlo dovrà voltare le spalle ai propri compagni e ai loro piani di ribellione e di fuga.
Un quadro duro e crudo visto attraverso la soggettiva del protagonista, quindi un piano ravvicinato sugli orrori compiuti dai nazisti, ancora un’occasione per riflettere su una tragedia che, purtroppo rischia ogni volta di ripetersi, di fronte allo sguardo indifferente di un mondo che, purtroppo, non cambia, almeno in quanto a guerra, genocidio e pace. Lo spunto nasce nel regista Làszlò Nemes dal ritrovamento, mentre lavorava in Corsica come assistente sul set, del libro pubblicato dal Mémorial de la Shoah col titolo “Des voix sous la cendre” (La voce dei sommersi, Marsilio), che raccoglie gli scritti di alcuni membri del Sonderkommando di Auschwitz.
“Prima della loro rivolta del 1944 – dice il regista Làszlò Nemes -, queste pagine clandestine vennero nascoste sotto terra e ritrovate solo molti anni dopo la fine della guerra. Si tratta di una testimonianza straordinaria, che descrive i compiti quotidiani dei Sonderkommando, l’organizzazione del loro lavoro, le regole con cui veniva gestito il campo e lo sterminio degli ebrei, ma anche come questi uomini riuscirono a creare una certa forma di resistenza. Da questo libro è venuta l’idea del film”.
Grand Prix al Festival di Cannes, Golden Globe al miglior film straniero e ora candidato all’Oscar nella stessa categoria, oltre ad una quindicina di premi in tutto il mondo, “Il figlio di Saul” di Nemes è la ricostruzione di una testimonianza autentica e toccante, profonda e straziante che colpisce lo spettatore al cuore e al cervello al tempo stesso. Ancora più sorprendente perché scritto (con Clara Royer), diretto e interpretato da uomini nati non oltre cinquant’anni fa. Il regista non ha ancora quarant’anni e il protagonista poco meno di cinquanta, ma entrambi hanno sentito, non solo, dai famigliari sopravvissuti all’olocausto, i terribili racconti dell’orrore nazista.
“Ho sempre trovato frustranti i film sui campi di concentramento – confessa il regista -. Provano a costruire storie di sopravvivenza ed eroismo, ma secondo me propongono di fatto una concezione mitica del passato. La testimonianza dei Sonderkommando è invece qualcosa di concreto e tangibile. Descrive in diretta il ‘normale’ funzionamento di quella fabbrica di morte: la sua pianificazione, le regole, i turni, i rischi, i ritmi produttivi. Le SS usavano la parola ‘Stuck’, pezzo, per riferirsi ai cadaveri, come se fossero oggetti prodotti in fabbrica. Questa testimonianza, insomma, mi ha permesso di vedere l’accaduto attraverso gli occhi dei dannati dei campi di concentramento”.
“Buona parte del merito è del regista e della troupe – dichiara il protagonista a Roma per presentare il film -, quelli addetti al Sonderkommando erano persone estremamente terrorizzate dal fatto di scoprire, mentre estraevano da lì i morti, una persona che conoscevano, un parente, un amico, un vicino. La divisione dei ‘compiti’ era un sistema demoniaco, era come se i nazisti lasciassero il lavoro sporco ad altri, che dava agli assassini la possibilità di sentirsi innocenti; è stato un periodo in cui un esiguo numero di tedeschi è riuscito ad uccidere un enorme numero di ebrei lasciando tutto il ‘lavoro’ agli altri, persino il fatto di incenerire le ossa.
I pochi Sonderkommando sopravvissuti si sono sentiti colpevoli, mentre i nazisti si dichiaravano non colpevoli, non dovevano confrontarsi con le conseguenze perché ‘avevano solo eseguito degli ordini’ (a cui hanno fatto appello anche i militari argentini a proposito dei desaparecidos ndr.). Un po’ quello che accade oggi con i droni perché non sentiamo l’odore della morte né vediamo il dolore delle vittime. Il mio lavoro è stata una sfida per colmare il divario della mia vita, nella realtà dei membri dei Sonderkommando ne sono sopravvissuti solo alcuni, perché ogni quattro mesi venivano a loro volta uccisi e sostituiti. Io ho letto la loro storia negli anni Ottanta, cominciando dai resoconti dei superstiti; ho letto anche tutto quello che ha scritto il vostro Primo Levi per affrontare il dilemma etico di chi ha vissuto nei lager. Mio nonno mi aveva raccontato, quando avevo dodici anni, la storia dei genitori e della sorella incinta che non sono mai più tornati, e la storia dei miei genitori”.
"Spesso, alla fine di ogni presentazione pubblica - racconta -, la gente viene da me arrabbiata perché non riesce a capire le azioni del protagonista, che è folle o sciocco abbandonare i compagni impegnati ad organizzare una ribellione e una fuga da quell’inferno per occuparsi di un cadavere, ad ogni costo. Il punto è che per Saul – che di cognome fa Auslander, che significa straniero, io direi una sorta di extraterrestre - esiste qualcosa di superiore rispetto alla mera sopravvivenza fisica, essendo un credente, quindi, è più legato alla salvezza dell’anima che, per un ebreo, solo una degna sepoltura e una preghiera funebre possono garantire. Inoltre, il modo in cui quel
ragazzino sopravvive alla camera a gas – e poi viene ucciso dal dottore - ha in sé qualcosa di miracoloso del quale Saul, in qualità di testimone, si sente partecipe. Salvare quell’anima gli offre l’occasione della persecuzione di un obiettivo superiore, divino. Così come nello straordinario finale il testimone è un ragazzo, un fatto che lascia spazio alla speranza”. Il film è tutto girato in piani sequenza e la telecamera ci offre la visione di Saul – sta sempre sulla sua spalla -, in un ambiente di per sé claustrofobico dove c’è poco da vedere sennò l’orrore delle camere a gas, dove nessun altro entra tranne le vittime. E Nemes ce lo risparmia, tanto è già tutto intorno, accennato ma tangibile.
“Non c’era altra scelta – afferma Roehrig che vive a New York da quindici anni -, non si poteva rappresentare un tale orrore, altrimenti sarebbe sembrato pornografico; è stato quindi necessario creare una dialettica molto ricca tra suoni e immagini, sfruttando il campo visivo di un’unica persona e andando a compensare la carenza visiva con il predominio del suono – in cui convivono almeno quattro lingue: polacco, tedesco, ungherese e yiddish - che ha avuto una lunga lavorazione di post-produzione, impegnando cinque persone per otto ore al giorno”.
Nel cast anche Levente Molàr (Abraham), Urs Rechn (oberkapo Biederman), Todd Charmont (uomo con la barba), Sàndor Zsotér (dottore), Marcin Czarnik (Feigenbaum), Jerzy Walczak (rabbino del Sonderkommando), Uwe Lauer (SS Voss), Christian Harting (SS Busch), Kamil Dobrowlski (Mietek), Amitai Kedar (Hirsch), Istvàn Pion (Katz) e Juli Jakab (Ella). José de Arcangelo
(4 stelle su 5) Nelle sale italiane dal 21 gennaio distribuito da Teodora Film

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