giovedì 4 febbraio 2016

E' arrivato "The Hateful Eight" di Quentin Tarantino, un western capolavoro compendio del genere e omaggio al Cinema che ama di più nello splendore dei 70mm e della 'pellicola'

Finalmente “The Hateful Eight” di Quentin Tarantino nella sua versione originale e integrale in 70 mm, ovvero il famoso schermo chiamato Cinerama nella versione Ultra Panavision 70. Infatti, il
film è stato girato su pellicola e per l’occasione sono stati recuperate dallo studio le lenti usate nella sequenza della corsa delle bighe in “Ben Hur”, e le ha adattate in modo ottimale perché potessero essere usate con le macchine da presa di oggi.
Cinema al cento per cento, quindi, per un western inconsueto perché non solo è una sorta di compendio del genere in cui trovano posto anche altri – dal giallo stile Agatha Christie all’horror, dal gioco al massacro al teatro -, ma anche i riferimenti amati dal regista cinefilo per eccellenza, quindi passione e spettacolo, divertimento e ironia, in cui gli otto odiosi/odiati del titolo hanno tutti qualcosa da nascondere, quindi sono bugiardi e nessuno, proprio nessuno, è quello che sostiene di essere. Forse.
Gustosi riferimenti, citazioni e omaggi, dallo spaghetti western – non solo Sergio Leone ma anche Sergio Corbucci e C., al piccolo grande maestro, regista e sceneggiatore del genere della cosiddetta serie B, Charles Marquis Warren (da “I sette ribelli” al serial anni ’50 “Gunsmoke”), il cui cognome porta uno dei protagonisti, da Akira Kurosawa, di cui Leone trasse ispirazione, ma anche il western americano (da “I magnifici 7” di John Sturges a “L’oltraggio” di Martin Ritt, dove ognuno ‘racconta la sua verità’ anziché ‘la menzogna’).
Ma è la sceneggiatura di ferro a confermare Tarantino grande drammaturgo che, in un ambiente ‘da camera’ (non a caso fece una rappresentazione teatrale della prima stesura della sceneggiatura), mette in scena un confronto nord e sud, fra rabbia e vendetta, giustizia e (dis) onore, in cui emerge anzi esplode il lato più oscuro e feroce dell’uomo, in un mondo abitato da nemici nati. Il nostro mondo dove l’uomo continua ad eccellere per il male che c’è in lui.
E' l’ottavo lungometraggio (+ 3/4 per i 'corti' di "Four Rooms" e "Grindhouse") del regista che ama il cinema e i suoi attori – tutti da Oscar – dal suo feticcio Samuel L. Jackson alla rediviva Jennifer Jason Leigh, da almeno un decennio lontana dal cinema; dal grande Kurt Russell (ex bambino prodigio nel serial western “The Travels Jaimie’s McPheeters”, 1963/64), al veterano Bruce Dern (già in “Django Unchained” e nell’ottimo “Nebraska”).
'L'opera' si apre – dopo l’Ouverture musicale, ovviamente firmata Ennio Morricone come tutta la colonna sonora, già insignita del Golden Globe - come una sorta di “Ombre rosse” (“Stage Coach” di John Ford) sulla neve, qualche anno dopo la Guerra civile, dove una diligenza porta il cacciatore di taglie John Ruth (Russell), ‘Il Boia’, e la donna che ha catturato, Daisy Domergue (Jason Leigh, forse stavolta vince la statuetta), alla città di Red Rock. Ma lungo la strada sono costretti a dare un ‘passaggio’ al maggiore Marquis Warren (il grande Jackson), ex soldato nero dell’Unione diventato uno spietato cacciatore di taglie, e Chris Mannix (Walton Goggins), un rinnegato del Sud, presunto nuovo sceriffo della città.
Però una bufera di neve obbliga tutti a fermarsi nell’emporio di Minnie, una stazione di posta per diligenze tra le montagna. Comunque, al loro arrivo, non trovano la proprietaria né il marito, ma quattro facce sconosciute: Bob (il messicano Demian Bichir, da “Perdita Durango” a “Le belve” e “A Better Life”) che si occupa del rifugio, il britannico Oswaldo Mobray (il sempre inimitabile Tim Roth), il vero boia di Red Rock; l’ambiguo mandriano Joe Gage (Michael Madsen) e il Generale confederato Sanford Smithers (Dern).
E, mentre fuori infuria la tempesta, gli otto viaggiatori scopriranno pian piano che sarà difficile arrivare a Red Rock… sani e salvi. Qui inizia ‘il giallo’ e lo spettatore partecipa alle ‘indagini’ condotte (e commentate) dall’autore stesso, fino ad un epilogo da non rivelare assolutamente. Tutto raccontato con la graffiante ironia e l’humour nero tipico del regista, che anziché l’estetica della violenza di Peckinpah predilige quella fumettistica dello spaghetti western ma che, pur sempre esasperata, colpisce anche il cuore.
Nel cast anche un Channing Tatum a sorpresa, James Parks, Dana Gourrier, Zoe Bell, Gene Jones, Keith Jefferson, il veterano della tivù Lee Horsley (da “Matt Houston” a “L’ultimo dei Mohicani”), anche lui in “Django Unchained”; Craig Stark e Belinda Owino. Da segnalare, naturalmente, la fotografia di Robert Richardson che, come ‘l’intero’ film andrebbe goduta in 70 mm (però in Italia, dal 28 gennaio, in soli tre sale, a Roma (nello studio 5 di Cinecittà, ingresso 15 euro), Bologna (Cineteca) e Milano. Anche perché la versione digitale dura 2h 47’ contro le 3h 8’ dell’originale in Ultra Panavision, che comprende Ouverture e Intervallo all’insegna dell’8, ovvero dei 188 minuti voluti da Tarantino. José de Arcangelo
(4 1/2 su 5) Nelle sale italiane dal 4 febbraio un’esclusiva per l’Italia Leone Film Group in collaborazione con Rai Cinema, presentato da O1 Distribution Il film ha ricevuto tre nomination agli Oscar dell'Academy: per la migliore colonna sonora è candidato il Maestro Ennio Morricone, mentre Jennifer Jason Leigh ha ricevuto la nomination per la Migliore attrice non protagonista e Robert Richardson per la Migliore fotografia.

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